Lettere

Lettera a Madre A. C. Ducey (suora Orsolina) - 25 giugno l945

Cara Madre Ducey,
le riconosco un'intenzione molto gentile, sebbene non possa probabilmente essere d'accordo sull'argomento nella sua totalità. Tuttavia debbo dire che l'attribuire una qualche limitazione ad un'altra religione rispetto alla nostra deriva generalmente dalla ignoranza che ci contraddistingue circa quest'altra religione. Per esempio, nell'induismo Dio non è "infinito bene e infinito male", ma trascende queste (e tutte le altre) distinzioni. Tali distinzioni restano valide per noi... Egli è 1'autore del bene e del male nel senso che in ogni mondo creato ci devono essere tali contrari o non sarebbe un "mondo". Quando Egli fa nascere e morire, dà e toglie vita, fa cose che dal nostro punto di vista sono insieme bene e male; ma il Suo Valore non è né diminuito né aumentato dall'uno o dall'altro effetto. "Il Signore ha dato e il Signore ha preso, benedetto sia il nome del Signore". E' infatti molto arduo, se non impossibile, formulare qualche critica valida nei confronti di un'altra religione se non ne sono stati studiati i testi sacri e non e stata praticata la sua Via così a fondo come si può assumere che siano stati studiati quelli della propria e seguita la Via che le è tipica. Una posizione come quella che lei sostiene si appoggia solo su una convinzione a priori secondo cui ciò che lei conosce direttamente deve essere il corpo di verità superiore e unico per completezza. Se ciò sia cosi o meno, non è stato indagato da lei, poiché la sua convinzione le risulta sufficiente. Tutti i suoi atti positivi sono buoni; lei ha ragione nel credere "furiosamente" nella sua verità. Ma la situazione cambia quando lei giunge alle convinzioni negative: il suo convincimento a priori degli errori degli altri non prova nulla e lei non può che condurre la sua indagine se non basandosi solamente su fonti di seconda mano - che nel caso delle religioni orientali sono molto pericolose, poiché queste religioni venivano investigate all'inizio da coloro che coltivavano il proponimento di confutarle e successivamente quasi sempre da studiosi razionalisti ai quali esse apparivano una follia per lo stesso motivo per cui la Cristianità sembra una follia al cospetto del mondo moderno. L'ultima cosa che desidererei negare (proprio come lo vorrei per l'Induismo) è che la religione in cui lei crede costituisca un corpo di verità completo; ma io nego (allo stesso modo che per l'Induismo) che essa lo sia in qualsiasi senso esclusivo. Se voi non state con noi, almeno noi stiamo con voi. Per favore non preghi che io divenga Cristiano; preghi solo perché io possa conoscere Dio ogni giorno sempre meglio...
A. K. C.



Lettera a P. Sorokin - 9 gennaio 1947

Caro Sig. Sorokin,
Ogni tanto ripenso al problema posto da lei, e ritorno sempre a questo, che la sola via di salvezza passa attraverso la filosofia, che la filosofia "con la sua liberazione e purificazione non dovrebbe essere qualcosa a cui si fa resistenza" (Phaedo 82 D). Penso che tutte le guerre siano proiezioni della guerra che si svolge dentro di noi, il tragico conflitto tra "dovere " e "volere"; infatti questo risulta esplicito nella lettera di S. Giacomo. La prima cosa da desiderare è insegnare agli uomini ad essere "in pace con se stessi" (La contesa di Omero ed Esiodo, 320). Da questo punto di vista si potrebbe procedere per delineare la phaideia di ciascuno o il concetto di necessaria "coltivazione" interiore. Il problema diviene quello di come rigenerare la filosofia rendendola modello di vita. E strada facendo, pensavo che il nuovo libro di John Wild potrebbe essere abbastanza utile in questa direzione.
A. K. C.



Lettera a F. W. Buckler - data incerta

Caro Professor Buckler,
... Penso che la furia proselitistica implichi uno stato mentale che sarebbe vergognoso in chiunque. I Cristiani dovrebbero costruire una civiltà cristiana e farne la "loro" testimone. Lei si augurerebbe di poter cambiare una religione senza distruggere la relativa cultura. Poiché la nostra cultura è stata secolarizzata risulta naturale per noi pensare, adesso,, che una siffatta cosa sia possibile. Ma in un ordine sociale come quello che esiste in India lei non può separare la religione dalla cultura più di quanto lo si possa 1'anima dal corpo. Lì la separazione tra sacro e profano e difficile che esista. l'induismo penetra ogni cosa: si potrebbe dire che il linguaggio stesso risulta concepito per incarnare le idee religiose, e così non si potrebbe sostituire una nuova religione senza costituire un nuovo linguaggio (che potrebbe essere solo un inglese elementare o un inglese imbastardito). Lo stesso vale per tutta la musica e la letteratura e per ogni modo di vita. Il missionario ha perfettamente ragione, dal suo punto di vista, nell'opporsi e ignorare tutti gli elementi della cultura indiana- deve fare così se non vuole essere annientato dalla situazione circostante. Aggiungiamo a ciò che, naturalmente, gli è impossibile non appartenere alla sua specie e che perciò gli è impossibile non veicolare: tutte le infezioni della vita moderna In altre parole, il solo effetto su larga scala dell'attività missionaria in Asia non è di convertire ma di secolarizzare. Lei deve rassegnarsi all'alternativa: per convertire bisogna distruggere la cultura. Se non si distrugge la cultura, allora non si può convertire.
A. K. C.

Oriente e Occidente

"Oriente e Occidente" implica un'antitesi culturale più che geografica: è un'opposizione tra il modo di vivere misurato o tradizionale che sopravvive in Oriente e il modo di vivere moderno e disordinato che attualmente prevale in Occidente. Un'opposizione come questa non poteva essere avvertita prima del Rinascimento, e perciò possiamo dire che questo problema si presenta solo accidentalmente in termini geografici, perché è un problema di tempi più che di luoghi. Se infatti si escludono le filosofie "modernistiche" e individualistiche di oggi e consideriamo soltanto la grande tradizione costituita dai più eletti spiriti filosofici, la cui filosofia, essendo pure una religione, doveva essere vissuta per venire compresa, si constata subito che le distinzioni tra cultura d'Oriente e cultura d'Occidente, oppure tra Nord e Sud, sono paragonabili alle distinzioni tra i dialetti: tutti parliamo un unico linguaggio spirituale, il quale pur utilizzando parole differenti esprime le stesse idee, e molto spesso per mezzo di espressioni identiche. Detto diversamente: esiste la lingua universalmente intelligibile - non solamente verbale ma anche visiva - delle idee basilari su cui si sono costruite le diverse civiltà.

Esiste perciò, in questa assiologia o corpo di principi fondamentali comunemente accettati, un complesso comune di linguaggio; e questo ci fornisce la necessaria base per comunicare, per intendere per accordarci, cioè per applicare insieme i valori spirituali comuni alla soluzione dei problemi contingenti dell'organizzazione e del costume. È chiaro tuttavia che questa comprensione e questo accordo possono essere scoperti e verificati soltanto da filosofi o studiosi - se ve ne sono - che siano più che filologi e per i quali la conoscenza della grande tradizione sia stata un'esperienza vitale e trasformatrice; questi filosofi o studiosi formeranno il lievito, il fermento che potrà "rinnovare nella conoscenza" le civiltà imitatrici di oggi. Nel prendere da san Paolo questa espressione non intendo riferirmi a una conoscenza "scientifica" o a un potere tecnologico sulla natura, ma alla conoscenza del proprio Sé, che i veri filosofi dell'Oriente come dell'Occidente hanno sempre considerata come la conditio sine qua non della sapienza; perché qui non contano la "mancanza di istruzione" o l'ignoranza dei "fatti", ma importa ridare significato o valore a un mondo dalla "realtà impoverita". Oriente e Occidente si trovano in disaccordo sulle finalità solamente perché l'Occidente è determinato, cioè deciso ed economicamente "risoluto" ad avanzare verso una meta indefinita, e chiama "progresso" questo viaggio alla deriva.

Molto più di ogni forma di partecipazione attiva e diretta alla politica o all'economia conta ciò che i nostri filosofi o studiosi potrebbero essere con la loro opera di mediazione, conta molto più la loro semplice presenza catalizzatrice; non avendo diritto di voto e di "rappresentanza" a Ginevra, e rimanendo nell'ombra, non susciterebbero neppure opposizioni. Pensando a queste persone ideali, mi vengono alla mente oggi soltanto due o tre nomi: René Guénon, Frithjof Schuon, Marcos Pallis; escludo, da questo punto di vista, coloro che conoscono, anche se a fondo, o soltanto l'Occidente o soltanto l'Oriente.

D'altra, parte, la semplice buona volontà o la filantropia non sono sufficienti; e mentre è vero che le soluzioni giuste sono necessariamente buone, non ne consegue che sia giusto quello che all'altruista pare buono. Non c'è posto, in questa dimensione, per la "furia di proselitismo" degli "idealisti". Ciò cui mira effettivamente il "secolo dell'uomo comune" e l'uomo economico, l'uomo predeterminato economicamente, per il quale il meglio e il peggio non hanno una motivazione morale. (Un uomo siffatto, per i nostri fini è di gran lunga troppo "comune".) Ma quanti dei nostri "comunisti", mi domando, sanno che, originariamente "uomo comune" (communis homo) significava non uomo della strada ma la deità immanente, l'Uomo autentico che è insito in ogni uomo? E che cosa significa "libera iniziativa"? Questo: "la sua mano [quella dell'uomo "comune" nel significato attuale] contro le mani di tutti, e le mani di tutti contro di lui": abbiamo qui i semi fertili delle guerre del futuro. Ciò che noi esigiamo è qualcosa di diverso da un livello di vita quantitativo: chiediamo una forma di società nella quale, come dice sant'Agostino, "ognuno ha il suo posto preordinato da Dio, dove trova la sua sicurezza, l'onore, la soddisfazione, senza provare invidia per l'altrui superiorità e felicità, e per il rispetto di cui altri godono; una società nella quale Dio è cercato e trovato, e viene esaltato in ogni cosa"; una società nella quale, secondo le parole di Pio XII, "ogni attività ha una sua dignità intrinseca e allo stesso tempo uno stretto rapporto con il perfezionamento della persona umana". (E questo non è che un sommario quasi letterale della vera filosofia del lavoro proposta da Platone e dalla Bhagavad Gita).

Per quanto io conosca, nessuna forma di società si è avvicinata a questo ideale quanto la società indiana, della quale sir George Birdwood, un cristiano convinto ed esemplare, affermava: "Questo ordine ideale ci sembrava irrealizzabile, eppure esso continua a esistere [benché ormai in modo precario] e ci offre, nei suoi risultati quotidiani tuttora esistenti in India, una prova di quanto la civiltà ieratica dell'antichità sia superiore, in così numerose e imprevedibili maniere, alla civiltà profana, triste, vuota e suicida dell'Occidente".

Domandiamoci perché quasi tutte le nazioni occidentali sono guardate con paura, odio o diffidenza dalla maggior parte dei popoli dell'Oriente, e domandiamoci se gli occidentali meritano irrimediabilmente la fama di distruttori, gente che dove passa lascia il deserto e lo chiama pace. Già nel 1761 William Law chiedeva di "osservare come tutta la cristianità europea naviga tutt'intorno al globo portando fuoco e spada e tutte le omicide arti della guerra, per impadronirsi delle terre e uccidere gli abitanti delle due Indie. Quale diritto naturale dell'uomo, quale virtù soprannaturale, quale Cristo disceso dal Cielo non è stato calpestato sotto i piedi? Tutto ciò che si è letto o udito sulla barbarie dei pagani è stato superato dai conquistatori cristiani. E a tutt'oggi, quali guerre di cristiani contro cristiani..., per la misera divisione del bottino di un mondo pagano saccheggiato!". Scritte dopo appena un anno di trionfi militari inglesi "in ognuna delle, quattro parti del mondo", queste parole, come quelle dei capitoli conclusivi dei Viaggi di Gulliver, potrebbero essere state pubblicate vent'anni fa, quando si sparse la notizia dei massacri di Amritsar, o addirittura ai giorni nostri, in cui si è ammesso ufficialmente che fin dall'inizio della guerra attuale i soldati inglesi hanno più volte sparato su folle inermi; quando il fustigare è punizione comune per i reati politici e migliaia di deputati regolarmente eletti o di esponenti di gruppi politici (per la maggior parte impegnati nell'uso dei soli mezzi "non violenti") sono stati a lungo incarcerati senza accuse specifiche o processi; quando ognuno può temere di essere un giorno o l'altro arrestato e trattenuto in cella di isolamento. Tutto questo perché "la perdita dell'India sarebbe la rovina completa dell'impero britannico", e il governo britannico - questo "Uncino" ("Namuci", il Fafnir degli indiani o il "faraone" descritto da Ezechiele 29, 3) dell'epoca attuale - intende tenersi le proprie illecite conquiste in nome di una "responsabilità morale" verso popoli che possono, sì, essere stati divisi contro se stessi (divide et impera), ma che sicuramente divisi non sono nella volontà di essere liberi di risolvere le proprie difficoltà. Nessuna meraviglia allora che i pagani si scatenino, non già colpendo "alla cieca", ma perché vedono fin troppo chiaramente che l'impero è una istituzione commerciale e finanziaria che ha per scopo finale il furto [1].

Ma la politica e l'economia, sebbene non possano essere ignorate, costituiscono soltanto l'aspetto più esteriore e secondario del nostro problema: non sarà attraverso la politica e l'economia che si potrà, raggiungere la comprensione e l'accordo, bensì, all'opposto, sarà la comprensione ad avviare a soluzione i problemi economici e politici. Il primo problema spirituale da risolvere in comune (onde evitare la pura e semplice imposizione dei propri costumi agli altri popoli) è l'esclusione del movente del profitto, dal quale invece oggi sono in egual misura dominati e inibiti sia il lavoro sia il capitale. (Su questo problema sta formandosi un consenso di principio.) In altre parole, il problema di restaurare il concetto di vocazione, non concepita come una scelta arbitraria o come una determinazione passiva imposta da necessità finanziarie o dall'ambizione sociale, bensì intesa come attività alla quale si viene spinti dalla propria natura e nella quale, di conseguenza, la perfezione del prodotto è insieme espressione completa delle possibilità interiori (entelechia) dell'uomo. È innegabile che in questo modo, come dice Platone, "sarà fatto di più, e meglio, e più facilmente che in qualsiasi altro modo", una frase che sembra trovare la sua parafrasi quasi letterale nel precetto: "Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia" (dikaiosune = dharma) e nella promessa: "Tutte queste cose vi saranno date in soprappiù".

In un ordine basato sulla "vocazione" si presuppone che ogni professione (ogni "strada" della vita) sia appropriata a chi la esercita e conforme alla dignità umana; questo significa, in ultima analisi, che se esistono occupazioni che non sono consone alla dignità umana e cose che sono intrinsecamente turpi, simili occupazioni e prodotti debbono essere rifiutati da una società che abbia a cuore la dignità di tutti i suoi membri. Qui tocchiamo il problema dell'uso o abuso della macchina: si ha uso quando l'utensile dà al lavoratore la possibilità di compiere bene ciò che deve compiere, provando soddisfazione in ciò che compie; si ha abuso quando qualcuno diverso dal lavoratore collega allo strumento un interesse che è opposto a quelli del lavoratore, sicché lo strumento diventa giudice e controllore della qualità e del genere dei prodotti del lavoro. La distinzione tra l'utensile e la macchina; l'utensile, complicato quanto si voglia, aiuta l'uomo a realizzare l'oggetto che egli ha in mente, mentre la macchina, semplice quanto si voglia, rende suo servo l'uomo e di fatto lo controlla. Questo è il problema da risolvere se si vuole "preservare il mondo per la democrazia" e salvarlo dallo sfruttamento; ed è un problema che può essere risolto soltanto di comune accordo, quando siano compresi gli ideali dei sistemi tradizionali di "casta" e ci si renda pienamente conto che questi ideali potranno trovare realizzazione non entro le strutture di un industrialismo capitalistico, per quanto "democratico", ma solamente nell'ambito di una struttura nella quale la produzione abbia come scopo primario il "buon uso". Né questo problema va considerato esclusivamente dal punto di vista del produttore; ci sono valori anche nel punto di vista del consumatore: d'altronde, chi non è consumatore? Bisogna riconoscere (le prove sono a portata di mano in ogni buon museo) che la macchina - così come l'abbiamo definita sopra - non è l'equivalente dell'utensile ma un surrogato, e che tutto quanto è prodotto dalla macchina direttamente a uso dell'uomo è qualitativamente inferiore a ciò che è prodotto con l'aiuto degli utensili. Ho notato una volta la pubblicità di un commerciante di tappeti usati, il quale era disposto a pagare cinquanta dollari quelli "americani" e cinquecento dollari quelli "orientali". In definitiva tocca al consumatore decidere se vuole vivere a livello dei cinquanta o del cinquecento dollari; ma nessuna società organizzata sulla base della "legge dei pescicani" può accettare la seconda ipotesi. La combinazione della qualità con la quantità è chimera, come il voler servire contemporaneamente Dio e Mammona, ed egualmente irrealizzabile. Non riusciremo mai ad ammettere che la "ricchezza" o gli "alti livelli di vita" possano essere misurati in termini di quantità e di prezzi concorrenziali.

Mancando la conoscenza e l'accordo sui più alti livelli cui fare riferimento, esiste il pericolo imminente che tutto quanto si fa con coraggio per l'avvento di un mondo nuovo di generale fraternità si riduca, nella migliore delle ipotesi, alla pura possibilità di mangiare, bere e stare allegri insieme in quegli intervalli di cosiddetta "pace" che di quando in quando interrompono le guerre di conquista o di pacificazione o di educazione. L'opera dei "missionari" - si tratti di religione, di umanitarismo scientifico, di industrializzazione - è più una forza di livellamento che di innalzamento; anzi, fondamentalmente essa altro non è che una riduzione delle culture del mondo al loro più basso comune denominatore ("Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno!"). Per dare la felicità non è sufficiente trapiantare su altri lidi riproduzioni esatte delle moderne istituzioni e sistemi di vita nei quali l'Occidente in massima parte ancora crede, anche se sono stati proprio essi a causare le sue disgrazie; e neppure è sufficiente sognare di mescolare l'olio della "giustizia economica" con l'aceto di un "commercio mondiale" concorrenziale; l'Oriente arretrato, proprio in quanto ancora "arretrato", ha molta più felicità e tranquillità, e molto meno timore di fronte alla vita e alla morte di quanto ne abbia mai avuto o ne possa avere l'Occidente "progredito". Il darsi da fare per "conquistare" la natura, il considerare "divina" l'insoddisfazione, il tributare onori a quanti lavorano alla ricerca di "nuovi bisogni" [2], il sacrificare la spontaneità all'idea di un "progresso inevitabile", [3] sono tutti dogmi del "vangelo sociale" che l'Oriente non ha mai considerato capaci di procurare la felicità.

Da ciò che abbiamo detto appare chiaro che il movimento di "avvicinamento" tra Oriente e Occidente dovrà nascere in Occidente, anche perché è stato l'Occidente moderno a rinunciare per primo a quelle che una volta erano le norme comuni, mentre queste sono tuttora seguite da quanto sopravvive dell'Oriente - ed è ancora la massima parte -, benché abbiano perso e stiano ancora perdendo terreno. Vero è che esiste un altro Oriente, modernizzato, strappato alle sue radici, con il quale l'Occidente può entrare in concorrenza, ma una cooperazione sarà possibile solamente con l'Oriente che sopravvive, l'Oriente "superstizioso" (nel senso originario di superstare, "stare sopra": l'Oriente di Gandhi, l'unico che non abbia tentato di vivere di solo pane). Chi conosce questo Oriente? Dai nostri filosofi, dai nostri studiosi e teologi, noi abbiamo il diritto di aspettarci questa conoscenza; in effetti, la responsabilità delle future relazioni internazionali ricade in primo luogo sulle nostre università e Chiese occidentali, sui nostri "educatori", anche se oggi essi sono poco in grado di cooperare a "dissipare le nebbie dell'ignoranza che nascondono l'Oriente all'Occidente". Abbiamo bisogno di studiosi (sui pulpiti come nelle aule scolastiche e alla radio) per i quali non solamente il latino e il greco ma anche l'arabo e il persiano, il sanscrito o il tamil, il cinese o il tibetano siano ancora lingue vive in cui sappiano dare una formulazione a principi validi per la vita di tutti gli uomini; abbiamo bisogno di traduttori i quali abbiano bene in mente il principio che per tradurre senza tradire bisogna aver sperimentato in se stessi il contenuto di quanto si deve "trasbordare sull'altra sponda". Abbiamo bisogno di teologi i quali non pensino o pensino meno in termini di teologia cristiana e più in termini di teologia islamica o indù o taoista; teologi i quali abbiano verificato di persona che, come ha detto Filone, tutti gli uomini, "siano essi greci o barbari", in realtà riconoscono e servono l'unico e identico Dio sotto qualsiasi nome, o, se si preferisce, riconoscono e servono l'unico e immanente "Figlio dell'Uomo", il Figlio di cui parlava Meister Eckhart quando diceva: "Chi vede me vede mio figlio". Abbiamo bisogno di antropologi della levatura di Richard St. Barbe Baker, Karl von Spiess, padre W. Schmidt e Nora K. Chadwick; occorrono studiosi del folclore, quali J. F. Campbell e Alexander Carmichael. (Per gli "esperti in materia", il professor A. A. Macdonell e sir J. G. Frazer sono paragonabili ai taglialegna o portatori d'acqua.)

Abbiamo bisogno di mediatori per i quali il terreno comune del colloquio sia ancora una realtà, uomini che purtroppo raramente vengono dalle scuole pubbliche o dalle università moderne. E questo significa che il problema principale sta nella rieducazione dei literati occidentali. [4] Più di uno di questi literati mi ha confidato come gli siano occorsi dieci anni per liberarsi di una formazione "alla Harvard"; non ho idea di quanti anni siano necessari per superare una formazione ricevuta in un collegio missionario o per guarire da un corso di conferenze sulla religione comparata tenuto da un calvinista. Abbiamo bisogno di "reazionari" capaci di ricominciare da zero, cioè da un in principio in senso più logico che temporale, sicuramente non nel senso riduttivo di ante quo bellum, che il punto dal quale comincia la formazione dell'immemore "uomo comune" di oggi. Per "reazionari" intendo uomini che, quando le cose sono arrivate a un punto morto, non temono di sentirsi dire che "non si possono spostare all'indietro le lancette dell'orologio" o che "la macchina si è inceppata". Ciò che effettivamente vogliono i miei reazionari - per i quali non esiste il cosiddetto "passato morto" - non è già spostare all'indietro le lancette degli orologi ma spostarle piuttosto in avanti, verso un nuovo meriggio. Abbiamo bisogno di uomini che non temano di sentirsi dire che "la natura umana non si può cambiare"; il che è vero nel suo significato autentico, ma non più se pensiamo, erroneamente, che la natura umana è esclusivamente economica. Che cosa si può pensare di un uomo che avendo perso la strada, arrivato all'orlo di un precipizio - e non è forse verso una "balza scoscesa sul mare" che sta scivolando oggi la civiltà europea con tutte le sue possibili buone intenzioni? -, fosse così pazzo o così orgoglioso da non voler tornare sui propri passi? Chi in questa circostanza non tornerebbe sui propri passi, se almeno sapesse come fare? La dimostrazione di ciò l'abbiamo nella molteplicità dei "progetti" per un mondo migliore che l'uomo persegue, dimenticando che "una sola cosa è necessaria". L'Occidente moderno deve essere "rinnovato... nella conoscenza".

Anche qui, però, dobbiamo fare attenzione, perché due conseguenze, molto diverse, possono derivare dal contatto culturale tra Oriente e Occidente. Si può - secondo l'esperienza di Jawaharlal Nehru, e lo diciamo con le sue stesse parole - "diventare un miscuglio bizzarro di Oriente e di Occidente, fuori posto dappertutto e a casa in nessun luogo"; oppure si può, sempre restando se stessi, imparare a sentirsi "a posto" in qualsiasi luogo e "a casa" dappertutto: cittadini del mondo, nel senso più profondo dell'espressione.

Il problema è di "educazione" o, in altre parole, di "reminiscenza"; quando sarà stato risolto, quando cioè l'Occidente avrà ritrovato se stesso - cioè l'Io di tutti gli altri uomini - sarà risolto anche il problema del capire il "misterioso" Oriente, e non resterà che trasferire nella pratica ciò che è stato richiamato alla memoria; altrimenti, il mondo intero si ridurrà allo stato in cui si trova attualmente l'Europa. La scelta è in definitiva tra un movimento diretto deliberatamente verso un traguardo previsto ("destino") e la sottomissione passiva a un progredire inesorabile ("fato"); tra un modo di vivere carico di valori e di significati e un modo di vivere vuoto e senza senso.


1- "È del tutto conveniente che in Inghilterra una buona percentuale dei prodotti della terra sia destinata a sostenere il benessere di alcune famiglie, a produrre senatori, saggi ed eroi al servizio e in difesa dello Stato..., ma in India quello spirito arrogante, quella indipendenza e profondità di pensiero che derivano talvolta dal possesso di una grande ricchezza dovrebbero essere soppressi, perché direttamente contrari al nostro potere politico" (relazione della commissione Skeen, H. M. Stationery Office, Londra, e sul "Time" di Londra, agosto 1927, p. 9). (Corsivo mio). Un simile scoperto cinismo è infinitamente preferibile al sentimentalismo di coloro che si meravigliano che gli indiani non si dimostrino "riconoscenti" per tutti i benefici che il regime inglese ha portato con sé. L'impiegato statale inglese, pagato con denaro indiano, non ha il diritto di dedicarsi ad altro se non al bene dell'India; personalmente egli può essere più o meno simpatico, però il suo lavoro è semplicemente il suo dovere, il quale, se compiuto bene, merita rispetto ma difficilmente procura gratitudine. "Il regime straniero è una terribile maledizione e i vantaggi di secondaria importanza che esso può arrecare non potranno mai compensare la degradazione spirituale che esso porta con sé" ("Hindustan Times", 25 novembre 1945).

2- "L'elemento comune dell'intera situazione sta in questi semplici fatti: in ogni periodo storico i bisogni materiali dell'individuo sono limitati in maniera definitiva; ogni tentativo di allargare artificialmente questi bisogni materiali interferisce con la chiara tendenza dell'evoluzione, che porta a subordinare ciò che è materia alle esigenze spirituali e psicologiche dell'individuo; la spinta che sta alle spalle dell'industrializzazione sfrenata non è progressiva ma reazionaria" (DOUGLAS, Economic Democracy, 1918, cit. da L. BIRCH in The Waggoner on the Footplate, 1933, p. 130). "Generalmente le migliori qualità di un popolo si offuscano quando gli impegni reciproci vengono sostituiti da valori monetari; così si perde il senso della collaborazione e dell'impegno, che viene sostituito da un confuso contratto meramente legale e non morale. Si può giustamente affermare che il servo del Medioevo feudale era più libero e aveva più sicurezza e dignità che non il moderno stipendiato, schiavo del proprio stipendio. Questo aspetto è stato trascurato e negato dagli storiografi liberali, sinceramente fiduciosi nelle glorie del laissez-faire e nelle bellezze del "si salvi chi può"" (CONTE DI PORTSMOUTH, Alternative to death, 1944, p. 87).

3- "In India ogni occupazione è un sacerdozio... Mestieri e riti religiosi non possono essere distinti con precisione: agli uni e agli altri si applica lo stesso termine sanscrito karma, che significa "azione", "opera"... Si può cacciare un mercenario, non un servo ereditario. Tranquillità e buon servizio, quindi, si otterranno soltanto usando tatto e belle maniere. La servitù ereditaria è del tutto incompatibile con l'industrializzazione attuale, ed è per questo che essa è dipinta a tinte più fosche" (A. M. HOCART, Les castes, 1938, pp. 27, 28, 238). "L'elemento più importante [della illusione chiamata Progresso] è stato il trionfo di Mammona nella rivoluzione industriale, che ha disorganizzato la Chiesa, ha creato un nuovo feudalesimo, riducendo nuovamente il figlio dell'uomo a schiavo questa volta di una macchina e di una legge dettata dalla macchina. Effetto di quest'ultima fase è l'importanza che il secolo decimonono ha dato alla puntualità considerata come una virtù; e ciò non già per motivi di riguardo nei confronti degli altri ma unicamente perché non si può pretendere che un padrone lasci la macchina inattiva in attesa dell'uomo, del "figlio dell'uomo". Questi è diventato un ingranaggio della grande macchina, mentre, per l'industriale, il vapore è lo Spirito Santo, di cui riconosce la divinità... La Chiesa, attraverso le sue vicissitudini, ha forse salvaguardato a sufficienza l'insegnamento e i trionfi di Nostro Signore ricollocando il "figlio dell'uomo" al suo debito posto, cioè assiso alla destra del potere?" (F. W. BUCKLER, The Epiphany of the Cross, cit., pp. 64, 69).

4- "I nostri inconsci pregiudizi nazionalistici hanno già ostacolato qualsiasi significativa cooperazione filosofica in quest'area limitata che è l'Europa, ma ancor più radicalmente il nostro complesso di superiorità occidentale (che domina manifestamente filosofi e altra gente) ha impedito ogni autentica cooperazione tra i pensatori dell'Occidente e quelli dell'Oriente. Noi diamo per scontato, che tutte le soluzioni accettabili per ogni vero problema possono essere o saranno trovate nella tradizione occidentale. Questa presuntuosa e farisaica autocompiacenza è una delle cause delle guerre, ed entra come coefficiente in altre cause ancora. È questa la causa che i filosofi sono tenuti a rimuovere per prima. E lo potranno soltanto acquistando un interesse profondo e costante verso prospettive filosofiche diverse dalla loro, quelle, in particolare, dell'America Latina, della Russia, della Cina e dell'India. Perché tale interesse si concreti sarà necessario lo sviluppo delle sezioni filosofiche, che dovranno comprendere insegnanti di queste materie; più frequenti viaggi di filosofi, aiutati in questo dai nuovi metodi di visite di studio e di scambio di professori; una più generalizzata padronanza degli strumenti linguistici indispensabili" (E. A. BURTT, in "The Journal of Philosophy", 42, 1945, p. 490).

(tratto da "Sapienza orientale e cultura occidentale", Rusconi, Milano 1975, pp. 93-106)

La spada di Folgore

Come le parole, anche i simboli tangibili hanno il loro etimo: in questo senso, la derivazione della spada, come pure della scure, da una "radice" o un archetipo che è la folgore è universale e diffusa in tutto il mondo. Nello Satapatha Brahmana, I, 2, 4, troviamo descritta l'origine della spada sacrificale, del palo sacrificale, del carro (di cui l'asse è manifestamente il principio) e della freccia dal vajra di Indra (saetta, folgore, lancia adamantina e stauros). "Quando Indra scagliò la folgore contro Vrtra, così scagliata quella divenne quadruplice. Di essa la spada di legno (sphya) rappresenta circa un terzo, e il carro (cioè il suo asse) circa un terzo. Inoltre il (quarto e più corto pezzo), con cui egli lo colpì, si spezzò, e volando via (patitva)1 divenne una freccia; da cui il nome "freccia" (sara), perché si era spezzata (asiryata). In tal modo la folgore divenne quadruplice. I sacerdoti fanno uso di due di questi frammenti nel sacrificio, mentre gli uomini di sangue reale fano uso degli (altri) due in battaglia… Ebbene, quando egli [il sacerdote] impugna la spada di legno, è la folgore (vajra) che egli alza contro il malvagio perfido nemico, così come Indra quel giorno alzò la folgore contro il Drago (Vrtra)… Egli l'afferra con l'incantesimo: "Su istigazione del divino Savitr (il Sole), io ti afferro con le braccia degli Asvin, con le mani di Pusan (il Sole)"… Quindi egli l'afferra con le Sue mani, non con le proprie; perché è la folgore e nessun uomo la può brandire… Egli mormora, rendendola in tal modo affilata: "Tu sei il braccio destro di Indra". "Dalle mille punte, dai cento tagli", soggiunge, perché mille punte e cento tagli aveva la folgore che Indra scagliò contro Vrtra; in tal modo egli fa sì che la spada di legno sia quella folgore. "Tu sei il Vento (Vayu) tagliente",2 egli aggiunge; infatti colui che soffia quaggiù è il taglio più affilato, perché penetra attraverso questi mondi; in tal modo egli la rende tagliente. Quando poi egli dice "l' uccisore del nemico", secondo che egli desideri farne uso o meno dica: "L' uccisore del tal dei tali".3 Quando sia stata affilata, egli con essa non deve toccare se stesso né la terra: "Affinchè io non ferisca, ecc". In seguito egli brandisce la spada tre volte, scacciando via gli Asura dai tre mondi, e poi la quarta volta per respingere gli Asura da un "quarto mondo che potrebbe esserci come non esserci al di là di questi tre"; i primi tre colpi vengono sferrati cantando delle formule, il quarto colpo invece in silenzio. Quel che in sostanza afferma il terzo versetto del testo dello Satapatha Brahmana, è in hoc signo vinces. La spada di legno è descritta come diritta, è chiamata con il nome solitamente usato per significare spada, Khadga, e poiché doveva avere una guardia è evidente che questa doveva essere cruciforme. Il suo parallelo in Europa è abbastanza ovvio; nell'uso cavalleresco cristiano la spada e la croce sono virtualmente identiche; o per lo meno è possibile usare la spada in sostituzione della croce di legno, ed essa funge anche da arma consacrata e apotropaica, per scacciare gli spiriti maligni. 

In Giappone la spada è parimenti fatta "derivare" dalla folgore archetipica. La spada giappponese, sia essa scintoista, regale, o da samurai, è infatti la discendente o ipostasi (tsugi, nel senso che questa parola ha nel titolo imperiale Hitsugi, "Discendente del Sole", sansr. aditya-bandhu) della spada di folgore trovata da Susa-no-Wo-no-Mikoto, che potremmo chiamare l'Indra scintoista, nella coda del Drago delle Nuvole che egli uccide e squarta, ricevendo quale compenso l'ultima delle figlie della Terra; le sette che l'avevano preceduta erano state divorate dal Drago.4 L'eroe solare, in altre parole, si impadronisce dell'aculeo del Drago (Padre), "spada" che egli certo restituisce agli dei, ma che riprodotta manualmente e dotata di potere mediante riti appropriati diviene un vero e proprio palladio, un talismano "caduto dal cielo" (divo-patita), ed è sia oggetto di culto nel santuario scintoista sia "simbolo dell'anima del samurai, e come tale oggetto della sua venerazione". Il termine usato da Holtom, "venerazione", non è però certo la parola giusta qui. La spada di un samurai è considerata il suo sé o anima (tamashii) o alter ego, nonché l'incarnazione di un principio custode (mamori), e quindi protettore, sia fisicamente che spiritualmente. La prima concezione, quella della spada come estensione della propria essenza, somiglia moltissimo alla dottrina di Brhaddevata, I, 74, dove l'arma di un Deva " è la sua sessa energia ignea", e IV, 143, dove per converso il Deva "è la sua in-spirazione". La spada del Templare è allo stesso modo un "potere" e un' estensione del suo essere, e non un "semplce strumento"; soltanto un outsider (pro-fanus) direbbe che il crociato "venera" la sua spada. Holtom è certo un buon antropologo, e si ritiene soddisfatto delle spiegazioni nauraliste e sociologiche dell'arma in quanto palladium, di origine celeste; noi, che nell'arte tradizionale ravvisiamo un'incarnazione di idee piuttosto che un'idealizzazione di fatti, preferiremmo dire che si tratta di un simbolismo adeguato e di un adattamento alle necessità umane di princìpi superiori. 

È possibile ravvisare la stessa idea nella notizia secondo cui nei misteri dei Dattili Idei Pitagora sarebbe stato purificato da una "pietra del fulmine" che come dice la Harrison, "con ogni probabilità non era che… un'ascia di pietra nera, la forma più semplice di scure dell'età della pietra"; e anche nel fatto che l'attribuzione alle scuri di pietra e alle punte delle frecce del nome di "fulmini" e di un'energia magica è attestata "in quasi tutto il mondo". Conveniamo con la Harrison che questa idea non sia di origine popolare, ma non che per questo debba essere di origine tarda, perché ci appare poco sensata e poco persuasiva la sua opiniome secondo cui "il diffusissimo errore che queste asce fossero dei fulmini non può aver fatto presa sulle menti degli uomini che in un'epoca in cui il loro uso reale come banali asce era stato dimenticato … non può quindi essere molto antico". L'"errore … non può" - questa è una deduzione infondata da ogni punto di vista, perché se l'indù e il giapponese potevano chiamare fulmine una spada di legno o di metallo in un'epoca in cui tali armi avevano un "uso reale", è difficile capire per quale motivo l'uomo primitivo, che in un certo senso era anche sciamanista, non debba essersi comportato allo stesso modo. In primo luogo è difficile dubitare che l'uomo primitivo infondesse lo spirito nelle sue armi mediante incantesimi appropriati (così come facevano gli indù e i giapponesi, e come la Chiesa cristiana ancora oggi fa consacrando una varietà di manufatti, e in particolare nel caso della "transustanziazione"), dotandole in tal modo di un'efficacia più che umana; e in secondo luogo, se in base alla diffusione universale e "superstiziosa" (come "sopravvivenza") di tale nozione, e anche su basi più generali, ammettiamo che egli già chiamasse le sue armi fulmini, benchè perfettamente consapevole della loro reale artificialità, come possiamo supporre che egli intendesse tale denominazione in un senso più letterale (o meno reale) del brahmano che parimenti chiama la sua spada vajra - fulmine, folgore, o diamante?5 L'uomo primitivo, come ogni scolaro ben sa, ravvisava una volontà in tutte le cose - "il ferro da se stesso spinge l'uomo" -, e pertanto è stato chiamato "animista". Il termine è del tutto improprio perché egli non vedeva in ogni cosa un'anima indipendente, ma il mana, una potenza spirituale ancor più che psichica, in se stessa indifferenziata, ma di cui tutte le cose partecipavano secondo la loro natura. In altre parole egli spiegava l'attualità o efficacia di ogni cosa contingente immaginandola informata da un Essere fonte di ogni potenza e onnipresente, inesauribile, senza forma, e non particolarizzato: dottrina che coincide esattamente con quella cristiana e indù.6 Noi quindi sosteniamo che già l'uomo primitivo chiamava "fulmini" le sue armi, e non solo questo, ma che egli sapeva quel che intendeva chiamandole così; inoltre, che ciò è altrettanto vero per gli indù e i giapponesi, più sofisticati, con l'unica differenza che essi possono dimostrare citando capitolo e versetto di chiamare le loro armi fulmini con la piena consapevolezza della loro artificialità e del loro uso pratico; che anche il cristiano "adora idoli fatti dalla mano dell'uomo" (come potrebbero dire l'iconoclasta o l'antropologo), pur essendo in grado di dimostrare che non è come feticcio che egli "adora" l'icona; e infine, che soltanto quando trovassimo dei contadini ignoranti che che chiamano fulmini delle scuri senza sapere che sono armi, avremmo a che fare con una vera superstizione o "sopravvivenza" - superstizione che avrebbe dovuto essere compito dell'antropologo elucidare invece che registrare soltanto. 

(tratto da "Il grande brivido"

Nirukta = Hermeneia

Sono ben note a ogni studioso dei testi vedici quelle che l'erudizione moderna designa come «etimologie popolari». A mo' d'esempio si può citare la Chandogya-Upanishad (Vili, 3,3): «In verità, quest'Atmâ è dentro il cuore (êsha àtmà hridy)». Ed ecco, di questa espressione, il nirukta (in greco hermeneia): «Questi è dentro il cuore (hridy ayam)» è questa la ragione per cui il cuore è chiamato hridayam. Chi abbia capito ciò entra ogni giorno in Cielo».
In Yaska, naturalmente, gli esempi abbondano, come questo, tratto dal Nirukta, V, 14: «Pushkara significa "mondo intermediario", perché quest'ultimo "nutre" (poshafi) le cose che emergono all'esistenza. L'acqua è anch'essa detta pushkara, in quanto è mezzo d'adorazione {pùjàkara) e "deve essere venerata" (pùjayitavya) essa stessa. Intesa come "lot " (pushkara), la parola ha la medesima origine, poiché il loto è un ornamento (vapushkara), ed un " fiore " (pushya), perché "fiorisce" (pushyafé)». Spiegazioni simili sono in genere respinte come «gio¬chetti etimologici» (Eggeling), «essenzialmente artificiali» (Keith), «di alta fantasia» (Mazumdar), o più semplicemente come «giochi di parole».
E tuttavia gli eruditi s'accorgono in qualche modo che non possono ignorarle completamente, che, come scrive l'ultimo de¬gli autori citati (Indian Culture, II, p. 378), «si trovano in molte Upanishad spiegazioni immaginose... testimonianza di scarse conoscenze grammaticali e di ancora peggiori conoscenze linguistiche; e nonostante ciò i grammatici, che pur non le tengono per corrette, al loro proposito tacciono»: in altre parole, i più antichi grammatici della lingua sanscrita, le cui capacità scientifiche sono universalmente riconosciute, non hanno riportato queste «spiegazioni» nelle loro «grammatiche», ma nel contempo non le hanno nemmeno mai condannate.
La verità è che il nirukta non è una branca della filologia nel senso moderno della parola; una spiega¬zione ermeneutica può o non coincidere con il pedigree di fatto della parola in questione.
Il nirukta (=hermeneia) si fonda su una teoria del linguaggio di cui la filologia e la grammatica sono semplici rami; si può dire, anzi, i rami più secondari.
Ciò dico, naturalmente, non senza rispetto, e il più sincero, per quei «leviatani della scienza, irreprensibili nella loro onniscienza, che attraversano senza fremere l'oceano della linguistica, l'esplorano nei suoi più tenebrosi abissi, e quando non si azzuffino tra di loro, si gettano sugli audaci pesciolini che, pur nuotando in superficie, hanno la sfronta-tezza di avventurarsi a loro rischio e pericolo tra i flutti», e sarò sempre pronto ad accettare il consiglio di tali giganti su qualunque questione di genealogia verbale.
L'etimologia, che è un'eccellente cosa finché sa stare al suo posto, è nondimeno proprio una di quelle «scienze moderne che altro non sono, nel senso più letterale della parola, se non " residui " di scienze antiche, oggi incomprese» .
Nell'India, la scienza tradizionale del linguaggio costituisce l'argomento della Pûrva-Mîmânsâ, della quale è caratteristico l'«insistere sul principio dell'eternità dei suoni articolati e sulla conseguente dottrina secondo cui la connessione d'un suono con il suo significato non è data da una conven¬zione, ma è invece connaturale alla parola stessa».
Sen¬nonché quando il professor Macdonell, dopo questa eccellente osservazione, aggiunge (Sanskrit Literature, 1905, pag. 400) che «a motivo del suo scarso interesse filosofico, questo sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei», egli evidentemente vuol solo affermare che questo argomento non ha un particolare interesse per lui e per coloro che condividono le sue idee, poiché non si può supporre che abbia vo¬luto deliberatamente escludere Platone dal numero dei «filosofi».
Non solamente infatti Platone si avvale del metodo ermeneutico nel Cratilo, allorché, per esempio, spiega che «ciò che ha chiamato» (tó kalésan) le cose con il loro nome s'identifica al «bello» (tò kulàn), ma nell'intero corso di questo stesso dialogo s'occupa del problema della relazione che unisce i suoni ai significati, e vuoi stabilire se questa relazione sia essenziale oppure accidentale.
La sua conclusione è che il vero nome di una cosa è quello che ha un senso naturale (in sanscrito sahaja), vale a dire quello che è realmente una «imitazione» (mìmesis, in sanscrito: pratikriti) della cosa stessa in termini di suono, esattamente come, nella pittura, le cose sono «imitate» in termini di colore; tuttavia, a motivo dell'imperfezione che di fatto si riscontra nell'imitazione fonetica — la quale può considerarsi conseguente ad una reminiscenza imperfetta — la formazione delle parole di cui ci serviamo ha dovuto essere facilitata da certi artifici, sicché il loro significato è in parte convenzionale.
Un passaggio del Cratilo ci dice cosa bisogna intendere per «significato naturale»: esso è quello sul quale Socrate e Cratilo si trovano d'accordo quando affermano che «la lettera rho (in sanscrito ri, r) esprime le idee di rapidità, movimento e durezza».
Cratilo sostiene del resto che «colui che conosce i nomi, conosce anche le cose che essi esprimono»; il che equivale ad asserire che «colui che per primo diede i nomi alle cose» l'ha fatto con una certa conoscenza della loro natura; egli afferma pertanto che questo primo «impositore di nomi» (in sanscrito nàmadhah) dev'essere stato «una potenza più che umana» e che i nomi dati in origine alle cose erano necessariamente i loro veri nomi.
Viene inoltre spiegato che vi sono due specie di nomi, quelli che si riferiscono al movimento e quelli che concernono il riposo, e tutti designano piuttosto degli atti che delle cose agenti.
Socrate, a sua volta, riconosce che la riscoperta dell'essere reale, astraendo dalle sue denominazioni, può «superare sia la mia che la tua capacità».
La dottrina indù ugualmente insegna (Bridad-dévatà, I, 27; Nirukta, I, 1 e 12, ecc.) che «i nomi sono tutti derivati da azioni»: se indicano un'azione, i nomi sono dei verbi, e sono sostantivi allorquando qualcuno, o una cosa, è considerato come l'agente d'una azione.
Non bisogna scordare che il termine sanscrito nàma non significa solamente «nome», ma anche «forma» (in senso aristotelico e scolastico), «idea», «ragione eterna» .
«Il suono e il significato» (sbabdàrtha) sono strettamente connessi; troviamo anzi questa stessa espressione impiegata come un'immagine dell'unione perfetta, qual'è quella tra Shiva e Shakti, tra l'essenza e la natura, tra l'atto e la potenza in divìnis.
I nomi sono la causa dell'esistenza; si può affermare che in ogni cosa composta (sattva, nomar ùpa) il «nome» (nàma) è «la forma» del «fenomeno» (rùpa), nel senso in cui si dice che «l'anima è la forma del corpo».
Nello stato di non-essere (asat) o d'oscurità (famas), i nomi dei princìpi individuali non sono ancora proferiti, essi sono «nascosti» (nàmàni gubyà, apìchyà, ecc.; Rig-Véda, passim) ; l'essere nominati corrisponde al passaggio dalla morte alla vita.
Lo stesso eterno Avatàra, come il bambino (kumdra) d'vin padre senza bontà, domanda un nome, poiché «è mediante il nome che s'allontana il male (pàpmànam apahanti)» (Shatapatha- Bràhmana, VI, 1-3, 9); ciò che gli esseri più temono nel loro cammino è di venire privati dei loro nomi da parte delle potenze della Morte, che sta in agguato, pronta a carpire (Krivir nàmàni provane mushayati - Rig-Véda, V, 44).
«È grazie al suo nome immortale (amartyéna nàmnà) che Indra sopravvive alle generazioni umane» (ibid., VI, 18).
Fintantoché un principio individuale rimane in atto, questi conserva un nome; il mondo dei «nomi» è il mondo della «vita»: «Quando un uomo muore, ciò che non lo abbandona è il nome ; il nome è senza fine , e poiché "senza fine sono gli Angeli Molteplici (vishvédévas), grazie al nome egli conquista il mondo senza fine (Brihadaranyaka-Upanishad, III, 2, 12)».
È con l'enunciazione dei nomi che una «potenza più che umana» non solo designa correttamente le cose esistenti, ma da anche loro l'essere; e se il Creatore è capace di ciò è perché conosce tutti i nomi nascosti, o «titanici» delle cose che non si sono ancora manifestate nel loro proprio dominio; è mediante questa prescienza dei nomi delle cause seconde che egli compie quanto dev'essere compiuto, compresa la creazione di tutti gli esseri individuali .
Leggiamo per esempio nel Rig-Véda: «Mediante i nomi delle Quattro (Stagioni) ha messo in movimento la ruota (dell'Anno), che è trainata da novanta corsieri» (I, 15.5-6) «Tu, o Maghavan (Indra), conosci certamente tutti i tuoi nomi di Titano mediante i quali hai compiuto le tue potenti imprese» (X, .54-4); «Varuna conosce i nomi segreti e nascosti; fa fiorire ogni locuzione (kàvya puru pushyati), così come la luce del cielo fa fiorire ogni specie (pushyafi rupam)» (Vili, 41-5).
È per la stessa influenza che i mantra sono efficaci; cfr. per esempio il Panchavirmasha-Bràhmana (VI, 9,  e 10-3): «Con la parola "nato" (jafa) egli fa nascere (jìfamat)...
Dicendo "le vite egli anima tutti i "viventi"», e la Brihadaranyaka Upanishad (I, 5, i8): «In verità è la Parola divina, in virtù della quale qualsiasi cosa egli dica viene all'esistenza».
È dunque in virtù d'un atto di «previdenza» divina che tutte le cose vengono prodotte: «Varuna conosce tutte le cose nel loro principio intellettuale (vishvam sa veda varuno yathà dhiya)» (Rig-Véda, X, 11, i).
«II Creatore dell'universo, il Veggente celeste che percepisce ogni cosa con uno sguardo (samdrik), e che è chiamato "l'Unico di là dai sette rishis"... e che è chiamato Punico Dominatore degli Angeli (yo dévànàm éka èva) verso il quale si rivolgono tutti gli altri esseri per la loro istruzione (samprashna)» (ibid., X, 82, 2-3).
Quest'ultimo passaggio dev'essere confrontato con quelli devo «grazie ai servigi da loro resi nel corso dei sacrifici, ottennero i loro nomi rituali e produssero i loro nobili corpi».
Essere nominati, ricevere un nome, equivale a nascere, ad essere in vita.
Questa creazione per via di denominazione può essere considerata sotto due aspetti: per l'«unico Denominatore» l'enunciazione è, come egli stesso, unica; per i principi individuali questo Significato unico, che contiene tutti i significati, è verbalmente diviso: «Con le loro parole lo resero molteplice, lui che è Uno» (Rig-Véda, X, 114).
Ma, nella misura in cui questa divisione sacrificale è una contrazione ed una identificazione alla diversità, deve essere ben chiaro che il nome, anche se indispensabile per il cammino da percorrere, non rappresenta la meta finale: «La Parola (vach) è la corda, e i nomi sono i nodi coi quali tutti gli esseri sono legati» [Aitaréya-Aranyaka, II, i, 6).
La fine è essenzialmente identica al principio: è solamente quando «non è più nutrito dal nome e dalla forma (nàma- rùpàd-vibhuktah) che il Conoscitore (vidvan) raggiunge quell'Uomo celeste che è di là dall'aldilà; conoscendo Brahma, egli diventa Brahma» (Mundaka-Upanishad, III, 18-19), «Così com'è dei fiumi che scorrendo si dirigono verso il mare... là dove il loro nome e la loro forma sono distrutti e non si parla più che del mare» (Prashna-Upanishad, VI, 5).
«L'anima esigente — dice Eckhart - non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome». «Quando ci si perde nella Divinità, ogni definizione sparisce», e per questo aggiunge: «Signore, la mia fortuna proviene dal fatto che voi non pensate mai a me»: di tutte queste affermazioni si potrebbero trovare molti altri equivalenti, tratti dalle fonti cristiane, islamiche o indù.
Si può così intravedere una teoria dell'espressione secondo cui la denominazione e resistenza individuale appaiono come aspetti inseparabili, e possono essere dissociate dal pensiero solo se considerate «obiettivamente», ma coincidono nel soggetto.
Teoria che è quella di un'unica Lingua vivente che nessun individuo può conoscere nella sua totalità, ma che rappresenta la sintesi di tutti i suoni articolati e corrisponde nello stesso tempo a tutte le forme d'esistenza.
Il «Verbo proferito» da Dio è precisamente questa «somma di tutte le lingue» (vachikam sarvamayan; Abhinaya Dar pana) .
Tutte le lingue esistenti sono delle eco di questa lingua universale; queste eco rappresentano dei ricordi parziali e sono più o meno frammentarie, così come tutte le visioni sono rifrazioni più o meno opache del «Quadro del Mondo» (jagach-chitra: Shankaràchàrya, Svàtmanirùpana, 95) o dello «Specchio eterno» (speculum seternum: S.Agostino, De Civìtate Dei, XII, 29): conoscere questa lingua universale, o percepire questo Quadro del Mondo, nella sua totalità ed in modo simultaneo, equivale ad essere onniscienti.
L'enunciazione originaria, inesauribile ed indistruttibile (akshara) (il mantra «om»), è pregna di tutti i significati possibili ed è ritenuta non solo un suono, ma anche una «luce onniforme» (jyofir visha-rùpam; Vajasanéyi-Samhità, V, 35).
Essa è la «forma esemplare» delle cose più diverse e, sia sotto il suo aspetto sonoro che sotto quello luminoso, è precisamente «quella sola cosa che, una volta conosciuta, le cose tutte sono conosciute» (Mundaka-Upanishad, I, 3; cfr. Brihadaranyaka-Upanishad, II, 4-5).
L'Idea - l'aspetto «paterno» - e il linguaggio o il mezzo d'espressione - l'aspetto «materno» -, i quali formano nella loro identità originaria il principio primo della conoscenza, sono evidentemente inaccessibili all'osservazione dei sensi : fintantoché una coscienza individuale può ancora considerarsi tale, fintantoché può essere «distinta», non può aversi onniscenza, e la sol cosa che possiamo fare è «rivolgerci per la nostra istruzione al Denominatore unico» (Rig-Véda, X, 82), cioè verso quella «potenza più che umana» alla quale accenna Platone, affinchè con degli atti di «reminiscenza» ci sia dato di riacquistare le nostre potenzialità perdute, elevando il livello della nostra conoscenza con tutti i mezzi a nostra disposizione.
La dottrina metafisica d'una Lingua universale non dev'essere intesa nel senso che sia stata effettivamente parlata da un qualche popolo della terra; l'idea metafisica d'una Lingua universale è in realtà l'idea del Suono unico, non quella di gruppi di suoni che sarebbero stati proferiti successivamente; ed è proprio a questi gruppi che noi pensiamo quando impieghiamo l'espressione «lingua parlata».
Tale lingua non ci fornisce infatti alcuna conoscenza a priori del pensiero da esprimere, e certe volte «è difficile stabilire se sia il pensiero ad essere difettoso o se lo sia invece il linguaggio che non è riuscito ad esprimerlo» (Keith, op.cit., pag. ^4).
Una supposizione che più naturalmente deriva dall'ermeneutica tradizionale (nirukta), è che sussistano nelle lingue parlate diverse tracce d'universalità e, in particolare, tracce d'una mimésis naturale (con ciò, ovviamente, non intendiamo una semplice rassomiglianza onomatopeica, bensì una vera e propria analogia); e che, anche nelle lingue ampiamente modificate dall'artificio e dalla convenzione, sussista una parte importante di simbolismo, e d'un simbolismo naturalmente adeguato.
In altri termini, basterebbe infatti constatare che certe consonanze, che possono solo eventualmente corrispondere al pedigree di fatto delle parole, offrono nondimeno svariate indicazioni sulle loro affinità e significati: proprio come quando riscontriamo certe somiglianze, sia fisiche che di carattere, al di fuori d'una linea di discendenza diretta.
Tutto ciò differisce enormemente dalla concezione corrente delle «etimologie popolari»: non si tratta infatti di etimologie in senso stretto, ma piuttosto di assonanze significative ; e, in tutti i casi, se proprio si vuole parlare d'una tradizione «popolare», questa tradizione concerne il popolo unicamente per la sua trasmissione e non certo per la sua origine; il folklore e la philosophia perennis provengono da una fonte comune.
Ignorare il nirukta equivale a porsi inutilmente in uno stato d'inferiorità nell'affrontare l'esegesi di testi tradizionali.
Si osservi, al contrario, l'atteggiamento molto più intelligente di Omikron: «Cambiando opinione mi misi a consultare costantemente tutti gli anti chi lessici e frammenti lessicali che potei procurarmi, poiché ritenevo che, in questi primi dizionari ellenici, gli antichi saggi avessero raccolto diversi significati esatti, nonché svariate indicazioni riguardanti le espressioni simboliche ed allegoriche.
Una particolare attenzione accordai alla strana Hermeneia degli antichi grammatici, ritenendo che le loro interpretazioni fossero basate su valide ragioni, anche quando, come fanno generalmente, diverse sono le spiegazioni che danno per la stessa parola» .
Non si può pretendere che le relazioni esistenti tra i suoni ed i significati vengano seriamente studiate nell'epoca moderna, anche solo in modo puramente empirico; abbiamo infatti avuto modo di constatare, come testimonia Macdonell, che «il sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei».
Anche se ricerche del genere sono state tentate con risultati incerti o negativi, ciononostante resterà pur sempre vero che l'ermeneutica (nirukta), com'è stata effettivamente praticata dagli autori dell'antichità, ci fornisce un aiuto inestimabile per la comprensione del senso dei simboli verbali di cui da la spiegazione.
I termini impiegati nelle Scritture tradizionali hanno quasi sempre un carattere eminentemente tecnico e racchiudono tanti significati, corrispondenti a diversi gradi d'approfondimento, che lo stesso «nominalista» dovrebbe, dal punto di vista della semantica, sentirsi debitore dell'ermeneuta.

La concezione dell'arte di Meister Eckhart

«Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem» (Quintiliano, IX, 4).

Esiste un'acuta e molto valida teoria estetica negli scritti dei filosofi scolastici, che pure non hanno composto alcun trattato specifico intitolato «Filosofia dell'Arte». .. E non v'è dubbio che i Sermoni di Meister Eckhart, che ben potrebbero definirsi una Upanishad europea, sono tra quegli scritti di gran lunga i più profondi e dotati di significato universale, sia per vigore di affermazione che per chiarezza di pensiero. La superiorità di Eckhart non è quella tipica del genio; ciò che colpisce nel suo pensiero non è l'individualità o l'originalità, ma solo una grande energia e forza volitiva che gli consentono di riassumere e concentrare in un'esposizione coerente e organica la spiritualità europea al suo massimo grado di tensione. La sua devozione al tema è totale e la qualità dello stile è creata dai suoi allenati poteri mentali; d'altronde, come egli stesso dichiara a proposito del pittore di ritratti, «non è lui a rivelarci le cose». «Ciò che dico è dentro di me ... come dono di Dio ». La concreta analogia tra la forma mentis di Eckhart e quella che è stata a lungo consueta in India dovrebbe renderne facile la comprensione al seguace del Vedanta o del buddismo mahayana, mentre richiederebbe uno sforzo molto maggiore da parte del cristiano protestante o del moderno filosofo. Per i lettori europei una minima conoscenza della teologia cristiana e del pensiero scolastico deve essere data per scontata. Sia a beneficio dei lettori indiani sia perché ritengo inevitabile per studiosi di estetica e metafisica la collazione di termini tecnici orientali ed europei, ho sistemato in parentesi gli equivalenti sanscriti ogniqualvolta essi servivano a chiarire o a meglio precisare il significato dei termini stessi. Per il resto, ogni parola o passo inscritto in virgolette è di Eckhart. Non ho ritenuto necessario distinguere le sue parole da quelle di altri studiosi, maestri e pensatori non cristiani, che Eckhart a volte cita e sottoscrive, non essendo questo uno studio sulle sue fonti. Ho tentato di sistemare in modo logico il materiale disponibile e, dove è stato necessario sviluppare l'idea originale, ho cercato di restare in stretta armonia con le idee scolastiche in generale e con le espressioni di Eckhart in particolare, spesso ricorrendo a parole sue anche quando ciò non è indicato espressamente con un riferimento specifico. L'intera concezione della vita umana, nel suo dinamismo e nella sua realizzazione, è in Eckhart estetica: suo motivo dominante è quello dell'uomo come artista, in analogia con «l'Artista Supremo», e la sua idea del «bene sovrano» e della «delizia immutabile» è quella di un'arte giunta a perfezione. L'arte è religione, la religione è arte, il loro non è un semplice rapporto ma un'identità, e nessuno può addentrarsi nella teologia senza averne esperienza. La Trinità, ad esempio, è variamente definita «"relazione" di Dio nell'unità». «parola articolata», «determinata da nozioni formali», «simmetria in sublime lucidità». Eckhart non scrive un trattato sulle arti, per quanto dimostri di conoscerle bene, ma sermoni sull'arte di conoscere Dio. L'ignoranza è «assenza di conoscenza ... stupidità». La conoscenza è triplice: 1) dei particolari e differenziali, cioè sensibile, empirica, letterale, indicativa (samvya vaharika-pratyaksha); 2) degli universali, cioè razionale o intellettiva, allegorica, convenzionale (paroksha);3) dell'identità, cioè senza la mediazione d'immagini, trascendentale, anagogica (aparoksha = paramarthika-pratyaksha). La conoscenza dei primi due tipi è relativa (avidya), quella del terzo è immediata e assoluta (vidya), esprimibile solo in termini di negazione. Per chiarire il suo pensiero, Eckhart si riferisce costantemente alla pratica delle singole arti, all'arte nell'artista e al loro perfezionamento. La comprensione si dà attraverso la percezione, che può essere visiva o uditiva, ma che in entrambi i casi è un processo estetico. Ad esempio: «Vedo i gigli nel campo, la bellezza e vivacità dei colori, le loro foglie ad una ad una » come li vede un qualsiasi animale. Questo è il semplice riconoscere e godere le «creature in quanto tali », «così come sono naturalmente », apprezzabili rispetto alla loro funzione. Ma «il mio uomo interiore gode delle cose non in quanto creature ma come doni di Dio», ossia come immagini intelligibili, con una connotazione di speciale privilegio. «Di più, il mio "uomo nell'anima" non le assapora come dono di Dio ma come eternità. Anche così, tutte le creature annunciano Dio ». «Il mio esistere è come il profumo di un fiore» è come la risonanza del pensiero, è suggestione (dhvani), pura fragranza (rasa). In sintesi, le tre funzioni estetiche della denotazione, connotazione e implicanza, che corrispondono alla percezione, alla interpretazione e alla comprensione intuitiva.
L'anima dispone di due potenti facoltà, intelletto e volontà, che si esprimono nella visione e nell'amore e che possono creativamente esercitarsi all'esterno e interiormente. La via dell'uomo è quella in cui le cose esistono come immagini intelligibili e come mezzi di comprensione e comunicazione, sia concettualmente che nell'immaginazione. È in questa condizione che le cose sono colte nella loro incomprensibile molteplicità e devono essere realizzate in un'unità comprensibile; qui se ne apprendono gli usi e poi si impara a rinunciarvi: «Per trovare l'essenza autentica delle cose tutte le somiglianze vanno infrante, riconoscendo nell'immediato il remoto »; ma tale infrangersi e rinunciare è anche l'essenza dell'arte che, senza attaccamento ed in completo disinteresse, contempla il creato non nella sua apparenza ma nella sua realtà.
L'intelletto e la volontà si estrinsecano nella sfera delle varie professioni, quali quelle dell'artista, dello studioso, del sacerdote, e nella condotta, indipendentemente dalle capacità specifiche. L'artista non è un tipo particolare di uomo bensì ogni uomo è un tipo speciale di artista. Se le professioni (« saper fare questo o quello») corrispondono ad altrettante discipline, la condotta « essere con l'altro
e aiutarlo» è un altro tipo di disciplina, comune a tutti. Ogni attività comporta una sequenza, che vorremmo chiamare estetica, e che va dalla posizione di un problema, alla sua esecuzione e soluzione. Indipendentemente dai mezzi a disposizione, chiunque agisce si comporta allo stesso modo: la sua volontà obbedisce all'intelletto, sia che debba costruire una casa o che studi matematica, assolva un dovere o compia una buona azione. La mentalità moderna ha sostituito a tale divisione del lavoro un sistema di differenziazione che separa gli uomini in caste. Coloro che ne hanno tratto più danno sono gli artisti professionisti e la gente comune. L'artista (volendolo ancora chiamare tale) è danneggiato dall'isolamento in cui opera e dall'alterigia che esso gli procura, nonché dalla evirazione della sua arte, ritenuta un'esperienza non più intellettuale ma di pura sensazione; d'altro canto, il lavoratore (al quale si nega ormai la qualifica di artista) subisce il danno di essere asservito a una produzione brutale, in una società che valuta la merce più degli uomini. Tutti indistintamente hanno perso da quando l'arte ha cessato di essere il modello di ogni attività per divenire un lusso, sì che la maggioranza degli uomini si è abituata a vivere forzatamente nello squallore e nel disordine, al punto da non esserne più consapevole. Gli unici che oggi sopravvivono come artisti, nel senso scolastico e gotico del termine, sono gli scienziati, i chirurghi, gli ingegneri, e le uniche botteghe operanti sono i laboratori scientifici.
Proprio perché la concezione estetica di Eckhart non è volutamente personale ma inserita in una scuola, essa detiene un valore speciale, perché fu quello indubbiamente lo stile in cui gli eruditi di Parigi e di Colonia disputarono sull'arte e sulle singole arti nei secoli dodicesimo e tredicesimo, nel momento di apogeo dell'arte cristiana. Quegli stessi uomini, nella loro capacità collettiva manifesta come Chiesa, prescrissero i temi dell' arte e i dettagli della sua iconografia; l'esecutore, talvolta un monaco addestrato, o più spesso un membro esperto di una corporazione artigiana, sapeva trarre dal repertorio della tradizione un nuovo elemento da acquisire alla forma, indipendentemente dalla scontata abilità professionale nel professare la sua arte. In tal modo, l'intelletto e la volontà lavoravano di concerto. L'intenzionalità di quest'arte - quel solo fattore che in essa è comune alla mente e al prodotto, e cioè non lo stile e tanto meno alcun manierismo soggettivo, ma proprio il suo parlare per immagini - è appunto ciò che dobbiamo penetrare se vogliamo rettamente comprendere l'arte cristiana. A volte mi domando se in noi c'è davvero tale volontà. Infatti, da un lato, ci sono alcuni storici dell' arte per i quali la forma che muove l'arte dall'interno è trascurabile, mentre contano solo gli avvenimenti, le circostanze di provenienza, l'influenza e i relativi problemi di attribuzione; tutte cose che l'artigiano medioevale trascurava assolutamente. Vi sono all' opposto coloro che sostengono che il godimento dell'opera d'arte, il quale per generale ammissione costituisce il suo valore ultimo (posto che si intenda « godimento» nel giusto senso, e questo è il vero problema, non un assioma, dell'estetica), non richieda alcuna previa disciplina, essendo un'estasi inintelligibile (il che si può accettare) che può essere comunicata (e questo è inammissibile) a quanti aspirino a una visione trascendente, i quali tuttavia sono fin troppo disposti a convincersi che lo specchio dell'universo è la facoltà intrinseca della vista. (Tale « disposizione» non è che «un artificio dell' anima quando indulga in confortevoli intuizioni del divino ».) Studiare l'arte da un punto di vista storico può non essere dannoso in sé, ma non è esercizio migliore della soddisfazione di una curiosità; apprezzarne le opere solo in termini di piacere della vista o dell'udito può non essere dannoso in sé « che un rumore fastidioso sia gradito all'orecchio quanto i dolci accenti di una lira è un'esperienza che non riuscirò mai a cogliere» ), ma non è niente di più di una sensazione potenziata. Se si riducesse a questo, l'estetica non sarebbe altro che una discussione sul gusto, ed è quanto infatti ritengono gli psicologi sperimentali. Parlare di arte esclusivamente in termini di sensazione è un fare violenza al soggetto spirituale della conoscenza; estrarre dal pensiero di Eckhart una teoria del gusto (ruci) sarebbe un fare violenza alla sua unità. E se tuttavia mi sono azzardato a desumerne una teoria dell'arte, non l'ho fatto per puro esercizio dialettico, ma sia perché mi è sembrato necessario in vista di una interpretazione specifica dell'arte cristiana, sia perché la concezione scolastica rappresenta qualcosa di più di una grande scuola provinciale di pensiero; essa rappresenta un modo di pensare universale il quale, gettando una luce su teorie analoghe prevalse in Asia, dovrebbe servire agli studiosi occidentali come un mezzo di accostamento e di penetrazione dell'arte asiatica.
La dottrina concernente i tipi, le forme e le immagini è di importanza essenziale per una comprensione dei riferimenti di Eckhart all'arte. Più di rado compaiono nel suo lessico termini quali sembianza, somiglianza, simbolo, effigie, modello e prototipo. Tra questi, tipo e prototipo, modello, idea e ideale sono impiegati solo con riferimento a cose conosciute e viste intellettualmente (paroksha); gli altri, o nello stesso senso o con riferimento all'immagine materialmente rappresentata (pratyaksha).
a). Cosa si intende per immagine secondo i due sensi predetti? Un'immagine "è qualsiasi cosa conosciuta o concepita"
o qualsiasi cosa sia vista o concepita che realizzata. Il Figlio, ad esempio, è « la stessa immagine eterna ... del Padre, la sua forma immanente », e al tempo stesso «l'esatto esemplare, l'immagine perfetta del Padre suo» in distinta Persona. In modo analogo, tutte le creature «nelle loro forme preesistenti in Dio sono eterne », e solo il loro materializzarsi corporeo, «quando la natura opera nel tempo e nello spazio », è soggetto a nascita, come per opera delle mani di Dio: «Tali forme preesistenti sono l'origine o principio creativo di ogni creatura, ed è in tal senso che sono tipi e rientrano nella conoscenza pratica ». Esse vivono nella « mente divina», il « tesoro» dell'« arte di Dio»: «L'intelletto è il tempio di Dio, dove egli risplende nel fulgore della sua gloria. Non v'è dimora di Dio più reale di quella del tempio divino dell'intelletto (alaya-vijnana); «La quiddità o il modo è la via che mena a questo tempio ». Simile al tesoro di Dio, «vi è un potere nell'anima chiamato mente (vijnana samkalpa); essa è il ricettacolo delle forme incorporee dei concetti »; in questo ricettacolo dell'anima le idee possono apparire sia nuove sia ricordate, ma in entrambi i casi vi sono, per così dire, raccolte, giacché « tutte le parole effuse dalla sua essenza divina fluiscono nella parola che la mente assume come Persona distinta, al modo stesso in cui la memoria riversa nei poteri dell' anima il tesoro delle immagini ».
Un'altra seppure superficiale distinzione di genere tra le idee può essere quella tra idee naturali, come quando si riflette sulla «forma-rosa» o sull'immagine di Conrad, e idee artificiali, che sorgono « teoreticamente, come la casa in legno e in pietra progettata nell'intelletto pratico dell'architetto, e realizzata il più vicino possibile al suo ideale »; entrambi i generi appartengono alla «facoltà pratica », sia come « idea dell'opera» che si intende concretamente compiere, sia come idea stabile nella mente e che costituisce oggetto di comprensione e mezzo a priori di comunicazione razionale. Entrambi questi generi di idee sono parimenti invenzione (anuvitta), una scoperta fatta nella « somma di tutte le forme concepite dall'uomo e sussistenti in Dio, delle quali non ho possesso, in quanto non dispongo neppure dell'idea di proprietà »; il che è da noi inconsciamente sottoscritto ogniqualvolta diciamo che una idea è venuta a noi o che l'abbiamo scoperta (eureka), mai però che l'abbiamo noi stessi prodotta. Nella migliore delle ipotesi ci siamo predisposti a riceverla, svuotando la nostra coscienza di ogni altra immagine creata o emozione effimera e accogliendo temporaneamente il segno o l'impronta di quella sola. Pertanto l'immagine è nell'artista, e non lui in essa; essa appartiene a colui di cui è l'immagine, non a colui che la accoglie: «L'immagine, in quanto è immagine, non riceve nulla di sé dal soggetto in cui è, ma riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine». Quando leggiamo: «Come l'artista, ispirato dalla sua arte, scolpisce nel legno, dipinge o affresca » « arte» significa l'idea del tema come a lui si presenta. Nell'oggetto, nella mente dell'artista e nel pezzo scolpito, l'immagine è la stessa, sebbene il risultato dipenda dalle obiettive capacità e non attinga mai il massimo della sua perfezione. Un'immagine scolpita non è inventata dall'artista ma è latente nel mezzo, per l'istinto alla forma proprio della materia; ad esempio, «quando un artista realizza una statua in legno o in pietra, non vi immette l'immagine, piuttosto elimina la parte di legno che ne celava la forma. Invece che aggiungere al legno, sottrae: assottigliando, pareggiando, fino a che non emerge quanto era nascosto», in analogia con l'immagine di Dio, onnipresente al fondo dell'anima sebbene impedita e nascosta.Pertanto, le idee di Dio e dell'uomo - i tipi - non sono le idee platoniche, esterne all'intelletto (nella essenza, non v'è immagine o somiglianza, ma solo identità, samata), immutabili e indeterminate, ma modelli attivi, forze, principi d'azione e di divenire, viventi e determinati: «Chiamare albero un albero non è definirlo, perché tutte le specie vi sono confuse»; né esistono due creature identiche, ché «ogni creatura è intrinsecamente una negazione, in quanto ciascuna nega di essere l'altra». Il numero delle idee è pari a quello delle cose che sono state o possono essere nel tempo; «i tipi sono tanti quanti i possibili esemplari della specie nei vari gradi della natura »; il loro numero non può essere maggiore, perché Dio non opera scelte, né lascia nulla di non fatto; ciò che egli pensa è, e ciò che è egli lo pensa, la sua creazione è diretta e simultanea. «Ogni creatura emana dalla sua forma appropriata» la nostra idea di processo e successione nel tempo è solo « dovuta alla grossolanità dei nostri sensi »; dal punto di vista di Dio, tutte le idee sono note immediatamente nella loro perfezione e unicità di forma; dal nostro punto di vista temporale, le idee sono libere, soggette al divenire variabile o, diremmo oggi, a evoluzione. Sotto ogni punto di vista, le idee o forme (nama) sono principi « viventi» e non puramente esistenti come modelli fissi e destinati a durare: non sono idee di forme statiche ma di atti.

«Un'icona in pietra o dipinta, in quanto pura forma, cioè indipendentemente dal mezzo sensibile, è la stessa forma di colui di cui è forma ». Sicché, in generale, l'artista è presente nell'opera unicamente con la sua perizia: «Dipingendo un buon ritratto, l'artista vi rivela la propria arte, non se stesso ». Se però il pittore ritrae se stesso - tale è il caso di Dio -, allora sono riflesse nel quadro sia la sua perizia sia la sua immagine, ma questa riflette la conoscenza che egli ha di se stesso, non il suo Sé reale: «Ciò fa onore al pittore che, ritraendo se stesso, incarna nel quadro il concetto più alto della sua arte, facendo di esso l'immagine di se stesso. La somiglianza in un ritratto loda l'autore senza bisogno di parole ». «Se dipingo su una parete la mia immagine, chi la vede non vede me; ma chiunque veda me, riconosce la mia immagine, e non essa soltanto ma mio figlio. Se realmente conosco la mia anima, chiunque vede il frutto del mio concepimento riconosce in esso mio figlio, poiché in esso partecipo la mia energia e la mia natura: questo, appunto, si verifica in Dio. Nell'atto di comprendersi perfettamente, il Padre mira la propria immagine, ossia il Figlio ». (Sia il ritratto sia l'uomo fisico sono il concetto che l'uomo ha di sé, «uguali» nella forma, nonostante la diversità tra la carne e la materia pittorica.)
A proposito dell'interpretazione del difficile passo del Genesi, 1,
26: «Facciamo l'uomo a immagine ed a somiglianza nostra», Eckhart afferma: «L'opera proviene dal Sé esterno e interiore dell'uomo, ma il suo più recondito Sé non vi ha parte. Quando un uomo crea, egli esterna il suo Sé più recondito» ; in questo passo sembra esservi una contraddizione. Il senso della prima affermazione è chiaro: in quanto sostanza dotata di una forma determinata l'opera proviene dalle mani dell'uomo che plasmano la materia, ma in quanto forma essa proviene dall'idea specifica agente nel suo intelletto, la cui opera non consiste nel plasmare la materia bensi nello scegliere il meglio possibile secondo il suo temperamento personale. Poiché l'opera concreta è rèalizzata dal corpo fisico dell'uomo, è del tutto naturale che in essa resti impressa una traccia della sua fisionomia, al modo in cui la scure, « che realizza il fine desiderato dello scultore», lascia nel legno la sua impronta riconoscibile. Cosi, dunque, nel tocco e nello stile l'opera è in qualche modo rivelatrice dell'uomo, cioè degli aspetti accidentali del suo essere. Sicché, secondo l'analogia di Eckhart, anche il Sé più recondito dell'uomo « si esterna» cosi come «quando Dio creò l'uomo, l'essenza più recondita della Divinità ebbe parte nella creazione », seppure «le opere divine non racchiudano nulla di Dio, ragion per cui non possono svelarlo ». O ancora: «La forma è una rivelazione dell'essenza », in cui non v'è immagine o somiglianza; l'essenza è in tutte le cose e, benché « immobile », «muove ciò che è mobile, tali sono le creature ». Come la Divinità in Dio, cosi il Sé recondito è nell'artista, perché sia l'una che l'altro sono compresenti e unificate nell'opera, non però in maniera operativa o intelligibile. Nell'opera stessa di Eckhart ravvisiamo un uomo che ha il dominio delle sue idee ma che lotta con il mezzo a disposizione, l'« intrattabile» e incolta parlata tedesca del suo tempo: ma nelle idee, seppure espresse in modo tanto vigoroso, «non c'è nulla dell'uomo» quale egli è in Dio. Se l'uomo esistesse nella sua opera come Dio nella creazione, dovrebbe esistervi come vita immanente, e l'opera compiuta dovrebbe essere viva e dotata di libera volontà. Se talvolta diciamo che un'opera vive, è solo per metafora, per una sorta di animismo che proietta le nostre vive reazioni nella cosa com' è in se.
L'interdizione islamica dell'iconografia vuole appunto sottolineare che l'opera dell'uomo non ha vita propria. I maestri musulmani definiscono infatti blasfema l'imitazione delle forme viventi, in quanto l'artista produrrebbe una pseudo - creazione, quasi contraffacendo Dio, il quale è l'unico a conferire la vita. Tuttavia, abbiamo visto e più avanti dimostreremo che l'arte cristiana non è un'imitazione delle forme naturali né una mera fonte di piacevoli sensazioni, ma un modo di parlare di Dio e della natura: essa non offende la dignità di Dio più di quanto non lo si faccia abitualmente nominandolo, contemplandolo o assaporandolo attraverso attributi e altre immagini, nella piena consapevolezza che «nulla che corrisponda al vero si può dire di Dio », che «Dio è senza nome », che «non c'è modo di conoscerlo per somiglianza» (egli è nirabhasa, amurta), che «una macchia nera che volesse rappresentare il più alto angelo sarebbe un ritratto molto più fedele di quello che volesse rappresentare Dio nella forma del più alto angelo, perché in quest'ultimo caso la dissomiglianza sarebbe totale ». E tuttavia è lecito ritenere che non vi è nulla «di più giovevole all' anima del penetrare la scienza della santa e una Trinità »; ovviamente ricorrendo al nome e alla forma, poiché «è consentito usare i nomi con cui i suoi santi lo hanno invocato ». Per san Tommaso «non è contrario alla verità l'uso della Scrittura di descrivere le cose spirituali per mezzo di figure desunte dalle cose sensibili; poiché tali figure non vengono usate allo scopo di far credere che le cose spirituali sono sensibili, ma solo per farci comprendere certe proprietà delle cose spirituali per mezzo di figure sensibili, che hanno con quelle una qualche somiglianza ». Se un atteggiamento iconoclastico sembra trapelare da alcuni passi quali: «Essi tacquero per timore di mentire »; «Chiunque si accontenta di ciò che si può esprimere in parole - Dio, il cielo, sono parole - è giustamente ritenuto un miscredente » si tratta tuttavia di una sorta di ascetismo e di rinuncia che si conviene solo a coloro che godono di una diretta visione di Dio, e che hanno acquisito il diritto di sostenere la vanità di ogni Scrittura; in tutti gli altri casi, negare che l'anima possa esprimere i propri poteri in opere esterne come mezzi di edificazione e illuminazione, non è in alcun modo scusabile. l'opera umana non abbia vita propria, colui che la esegue è analogo al «Sommo Artista», al Divino Architetto, al Supremo Creatore (Vishvakarma). «Consideriamo il caso di un artista. Quando egli realizza un' opera, la sua arte rimane pur sempre in lui: le arti sono l'artista nell' artista» (cioè nell'uomo così chiamato), al modo in cui « le cose fluirono nei limiti del tempo pur permanendo nell'eterno », là dove sono «Dio in Dio». «L'idea dell'opera esiste nell'intelletto pratico del creatore come oggetto della sua comprensione, grazie alla quale gli è dato esprimere l'idea cui in concreto conformare l'opera». Il che significa che l'opera esiste nella mente dell'artista non come un modo di comprensione, ma come una realtà già nota direttamente, come è vero che « la lettera dell'alfabeto che io scrivo è identica all'immagine che la mia mente ha della lettera, non alla mente stessa ». Ogni minimo particolare nell'opera corrisponderà ad analoghi dettagli di forma nella mente dell'artista: «Nessun architetto contiene in testa il progetto globale di una casa, senza i progetti di ogni suo particolare».
Ancora: «La forma, l'idea o l'aspetto di una cosa, per esempio di una rosa, è presente alla mia coscienza e deve esserlo per due motivi. Il primo è che in base all' aspetto della sua forma mentale (jnana-sattva-rupa) posso dipingere la rosa in concreto, dal che deduco esservi nella mia mente un'immagine della forma-rosa. Il secondo motivo è che a partire dall'idea soggettiva di rosa mi è dato riconoscere la rosa reale, anche se in realtà non la imito (ossia, non la riproduco in pittura). Così come posso avere in mente l'idea di una casa, pur non costruendola ». « Per plasmare un vaso, l'artigiano prende un pugno di argilla; tale è il mezzo su cui egli opera. La forma conferita al vaso è nella sua mente, ed è più nobile della materia utilizzata ». Per quanto poi riguarda il modo di esistere di tale forma nella mente dell'artista: «Un altro potere dell'anima è quello grazie al quale essa pensa (dhi-dhyai). Questo potere è in grado di raffigurarsi cose che non sono presenti, tanto che riesco a vederle come le vedrebbero i miei occhi, e perfino meglio. Se mi è possibile vedere una rosa d'inverno, quando non fioriscono rose, in virtù dello stesso potere l'anima produce (akarshati) cose traendole dal non-esistente (hrdaya-ảkảsha), al modo in cui Dio crea dal nulla (kha= xàόЅ) ». In ogni caso, «per essere giustamente realizzata, una cosa deve procedere dall'interno, mossa dalla propria forma; dall'interno all'esterno, non viceversa».
In altre parole, come « l'anima è la forma del corpo», così nell'artista l'arte è la forma dell'opera: «Il taglio del legno proviene dalla sega; ma ciò che, a lavoro finito, assume la forma di un letto proviene dal progetto» (presente nella mente dell'artista); «nella sega o nell'ascia non vi è attualmente la forma del letto, ma l'impulso a una tale forma »; e ancora san Tommaso, citando Avicenna: «Tutte le forme nel regno della materia procedono dalla mente ». Il sorgere di un'immagine proviene non da un atto di volontà, umana o divina, ma di attenzione (dhara1Ja), quando la volontà è in stato di quiete; il semplice possesso di immagini non ha nulla di meritorio in Sé, dato che l'immagine «riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine, ed è un prodotto naturale ... anteriore alla volontà, la quale segue all'immagine ». Il processo estetico che si verifica quando parlo è il seguente: qualcosa «zampilla in me, poi diventa un'idea sulla quale rifletto, quindi la esprimo »; o ancora: «Quando la mia mente concepisce una parola, essa è dapprima sottile e intangibile; diventa una vera parola non appena prende forma nel pensiero; e quando, infine, la mia bocca la pronuncia ad alta voce, non è che l'espressione esteriore di una parola interiore »; «La mente vede e formula, la volontà vuole, la memoria saldamente conserva ». Circa il ristare dell'intenzione, o il soffermarsi sull'idea: «Il mio desiderio di oggi è il mio scopo di domani, è l'idea di ciò che è mantenuto desto (sthita) dal mio effettivo pensarlo (vibhavayati), così come è detto: «Si compiono le opere di Dio ». Circa l'opera, leggiamo: «Opera e divenire sono tutt'uno. Quando il costruttore si arresta, anche la casa cessa di farsi. Se fermi la scure, arresti la crescita ». «L'uomo ha bisogno di molti strumenti per compiere le sue opere esterne; ed è necessaria una grande preparazione per realizzarle al modo in cui le ha immaginate »; la mente che investiga «può l'pendere un anno o forse più in ricerche su fenomeni della natura, per scoprire ciò che è, ma le occorre altrettanto tempo per scoprire ciò che non è »; invece «alle creature angeliche ... per l'opera loro occorrono meno mezzi e un minor numero di immagini ».
Come abbiamo visto, il processo estetico si svolge in tre fasi: !'idea nasce in germe, prende forma dinanzi all''occhio della mente, si esprime esteriormente nell'opera. Il primo atto è necessariamente l'effetto dell'attenzione orientata su un dato oggetto: l'artista è incaricato non di dipingere in genere, ma di dipingere qualcosa di specifico, diciamo un fiore, l'immagine di un angelo (deva) o di un altro oggetto. Eckhart ricorre all'analogia dell'ospite degli angeli, e benché non faccia esplicito riferimento alla fase pratica del processo estetico, il passaggio è facile. «Una volta un discepolo interrogò il maestro sulla gerarchia angelica. La risposta fu: Va' e immergiti nella contemplazione interiore fino a quando non vedrai: dònati alla ricerca totalmente, rifiuta di vedere tutto quanto non sarai riuscito a penetrare da te, e poi guarda! Ti sembrerà in principio di trovarti assieme agli angeli e, avendo rinunciato alla tua individualità immergendo ti nel loro essere collettivo, ti parrà di essere divenuto tutt'uno con l'angelica schiera». Fin qui la descrizione del processo è identica a quella del dhyana-yoga seguito dall'artefice indiano; basterebbe un riferimento alla riproduzione concreta delle forme angeliche, perché al passo citato si possa aggiungere un dyatva kuryat, ossia: «Dopo aver contemplato ed esserti abbandonato alla forma che ti si è presentata, inizia l'opera ». E supponendo che il dipinto sia destinato a occupare un dato spazio o che il suo schema compositivo preveda che gli angeli siano sistemati in una determinata relazione con altre figure, tutto questo, poiché costituisce una parte dell'oggetto prescritto, dovrebbe avere il suo prototipo nella compiuta e completa immagine mentale. Per quanto riguarda il dipinto concreto, nell'ipotesi che sia eseguito, esso non è altro che un accostamento di colori, né il mio occhio apprenderebbe nulla sugli angeli dalla sensazione che gli procura la riflessione della luce: solo io posso avere un'idea degli angeli, non nella mia sensazione o per suo tramite ma attraverso la loro immagine, la quale, identica a quella presente nella mente dell'artista, ora si è trasferita dal dipinto nella mia mente, giacché «l'udire e il vedere fisici si formano nella mente », e « se la mia anima conosce un angelo, ciò accade attraverso certi mezzi e dentro un'immagine, un'immagine priva di forma, non del genere di quelle che percepisco qui ». «Prima che il mio occhio veda materialmente il dipinto, esso è dovuto passare attraverso il filtro dell' aria e di una forma più sottile che la mia immaginazione concepisce e la mia comprensione fa propria ».
Pertanto il modello dell'artista è sempre un'immagine mentale. L'occhio (mảmsa-kakshu) non è che uno specchio: si può dire che esso vede gli oggetti, una rosa, una pietra, o un'opera d'arte, in virtù di una certa loro sostanziale affinità, «come il simile va con il simile ». Ma se affermo che io vedo, è solo per modo di dire, perché «se lo specchio cade l'immagine non c'è più ». «lo vedo» solo indirettamente e per mezzo dell'occhio, il quale mi serve in quanto esiste nell'anima una corrispondente facoltà ad esso connessa e che è, peraltro, del tutto lontana dalla materia; «Sottrai la mente e l'occhio resterà aperto senza scopo ». Il mio occhio vede piatto ma io vedo in rilievo; tale rilievo può non essere un fatto materiale, ma un'idea di relazione che rimarrebbe valida per me anche qualora il mondo fisico esterno fosse del tutto irreale. La forma interiormente conosciuta (antarjneya-rupa), relativamente immateriale, è il mezzo per cui riconosco ciò che il mio occhio vede, il solo mezzo attraverso il quale posso aspirare a comprendere ciò che l'occhio riferisce, e anche il mezzo che mi consente di parlarne ad altri. «Non vedo la mano, la pietra, in sé; vedo l'immagine della pietra, ma non la vedo in una seconda immagine o attraverso un altro mezzo; la vedo senza mezzo e senza immagine. È questa immagine in sé, il mezzo: immagine priva di forma, simile al moto senza movimento sebbene sia causa di moto, e simile alla grandezza che non ha grandezza per quanto stia a fondamento di ogni grandezza ». «L'anima conosce solo in immagine » non conosce le cose come sono in sé, ma idealmente, alla fonte, come sono in Dio. Non potrò mai vedere ciò che i miei occhi vedono (sensibilmente) né udire ciò che ode il mio orecchio in termini di vibrazione, posso solo conoscere razionalmente attraverso l'immagine. «Vediamo il sole attraverso il riflesso della sua luce su un albero o su altri oggetti, ma non lo percepiamo com'è in se stesso » altro che nell'idea che ne abbiamo. Questo punto di vista non è affatto peregrino ma costituisce un assioma della scienza moderna, il cui contatto con la materia avviene solo attraverso formule matematiche, non per via di sensazione.
Si deve dunque dedurre che, dal punto di vista scolastico, un'arte naturalistica di pura visualità (capace cioè di produrre sensazioni il più possibile identiche a quelle evocate dal suo modello visibile), destinata alla sola esperienza visiva, deve essere considerata non solo irreligiosa e idolatrica (l'idolatria è appunto l'amore alle creature in se stesse) ma anche irrazionale e vaga. Infatti, la sola cosa che può veracemente rassomigliare al proprio modello in natura è il suo riflesso nello specchio dell'occhio, ma questo riflettersi è una sensazione, non una comprensione (l'occhio non dispone di una facoltà autonoma di comprensione ed è incomprensibile alla mente: un caso di dissimile rispetto a dissimile). Inoltre l'immagine concreta, l'opera d'arte, è commisurabile al modello in natura solo in quanto sostanza determinata, ma resta fondamentalmente incommensurabile per la intrinseca differenza tra la rappresentazione e il modello vivente, nella misura in cui sono entrambe una essenza, la quale non può essere misurata. Natura e arte sono correlate (sadrhsya) solo nell'idea, altrimenti irreconciliabili.
La riconoscibilità del modello in natura e dell'immagine concreta non si basa affatto su una supposta somiglianza tra il primo e la seconda, ma dipende dalla forma immateriale o immagine ideale (nama) presente nell'oggetto, nell'artista, nell'opera, e infine in colui che guarda, immagine ideale che viene tradotta al massimo grado possibile di visibilità nell'immagine materiale (rupa), seppure questa sia diversa per natura. Se fosse possibile realizzare cose uguali a quelle in natura, cioè dotate di movimento autonomo - cosa inconcepibile o, secondo i musulmani, proibita -, non vi sarebbe arte ma solo natura o, nella migliore delle ipotesi, pura magia. O se fosse dato all'artista di raggiungere la perfezione - il che può essere virtualmente concepibile ma impossibile nella dimensione del tempo -, egli diverrebbe uno con Dio, sarebbe l'eterno compartecipe della sua creazione, gli oggetti naturali sarebbero la sua immagine nel tempo come lo sono di Dio, e non esisterebbe altro che l'eterno quadro cosmico come è visto da Dio. Né vi sarebbero occasioni per l'arte, perché il suo fine sarebbe già stato raggiunto. Nel frattempo, cioè nella nostra dimensione attuale, un'arte realizzata nel modo più conforme possibile all'occhio e solo per gli occhi non può essere considerata altro che una sovrapposizione di illusione a illusione, un volonteroso scambiate una corda per un serpente, secondo la metafora indiana analoga a quella di Eckhart della retta che nell'acqua si riflette come linea curva.
In che senso l'arte è necessariamente convenzionale o razionale è da Eckhart così spiegato: «Ciò che l'occhio vede deve essere trasmesso all'anima attraverso un mezzo, tramite immagini ». Se il pittore provetto «può dare la vita a Conrad », che cosa Conrad dà alla vita? Non si tratta di produrre un'immagine che possa essere scambiata per l'uomo in carne e ossa, bensì di riprodurre « il suo volto autentico» ossia, per quanto è possibile al pittore, il suo «sembiante fedele» così come è riflesso nello specchio dell'essenza di Dio, «l'elemento esemplare di Conrad che è alla pari con Dio »; è «un fatto di aderenza di forma ». «Trarrà gioia dalle cose come sono in sé, diversamente dall'intelletto, che le gusta come sono in se stesso ... Un occhio reale è cosa migliore di un occhio dipinto. E tuttavia insisto che l'intelletto è superiore alla volontà ». Eckhart intende che, in una certa misura, la mente coglie la realtà al modo di Dio, sub specie aeternitatis, alla fonte, in modo imparziale; infatti, « tutte le creature sono presenti alla mia mente in modo intellettivo. lo soltanto le dispongo a ritornare a Dio ... io soltanto le separo dal loro significato e, accogliendole nella mente, le rendo uno con me »; «L'intelletto (manas, prajna) innalza tutte le cose a Dio ». «Non è requie negli esseri fin quando non ottengano natura umana, là dove essi risalgono alla loro forma d'origine, Dio », poiché l'umana natura «è estranea al tempo ». «La cosa più banale, un fiore, se percepita in Dio come Lui la scorge {ossia in ogni singolo e vero aspetto, della cosa e di Dio: svarupa), sarebbe cosa più perfetta dello stesso universo ». È con l'occhio dell'artista, avvezzo a osservare con la mente e secondo la forma, che l'uomo vede le cose nella loro perfezione e giovinezza eterna, « nella misura in cui il ricettacolo lo consente », cioè secondo il suo temperamento personale.
Il naturalismo nell' arte non ha nulla a che vedere con la cosa in sé. Un'immagine di Dio può essere ripugnante nella sua denotazione materiale; un fiore dipinto può non avere alcuna rassomiglianza con alcunché di terreno. Eckhart non si attiene ad alcuna formula che contrassegni l'arte sacra o profana rispetto al soggetto. «Colui che, cercando Dio sotto forme stabilite, si ferma alla forma, non può incontrare Dio nascosto in quella forma » e costui è per certo un idolatra. I soggetti sacri sono immagini di Dio non più valide di quanto lo siano le forme naturali: «Si parla di otto cieli e di nove schiere angeliche ... devi sapere che espressioni evocatrici del genere non sono che dei modi di allettamento verso Dio »; infatti, «come dice Agostino, "Ogni scrittura è vana" ». Eckhart non tralascia di ribadire che tutti i contenuti (non ogni intenzione) sono Dio e che si dovrebbe imparare a vederlo ovunque e dappertutto: «Colui cui Dio è caro in una Cosa piuttosto che in un'altra, quell'uomo è un barbaro, un primitivo, un bambino »; «trovare Dio per una via piuttosto che per un'altra ... non è questo il modo migliore», «dovremmo saper godere di Lui in ogni foggia e in ogni cosa » «qualsiasi cosa sia »; «sono giunto come la fragranza di un fiore»; «ogni pulce come specchio di Dio è più nobile del più eccelso degli angeli come specchio di sé». Tale è il grado di imparzialità raggiunto dall'arte: quell'angelico punto di vista (adhidaivata) donde tutto è amato d'identico amore, «però che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è da odiare ».
Se l'atteggiamento dell'artista appare, da quanto sopra, intellettuale e razionale, l'opera d'arte è in se stessa, per la stessa impronta che l'artista le conferisce in quanto sua «creatura », anche più convenzionale di quanto non lo sia rispetto all'oggetto; e va pertanto interpretata e compresa non come l'immagine riflessa del mondo qual è in sé, ma come un simbolo o un insieme di simboli razionalmente significanti e dotati di un più profondo contenuto, intesi non soltanto come mezzi di denotazione ma di comunicazione e di visione. Questo è il motivo per cui, sia rispetto alle Scritture e ai miti in genere, sia a proposito di qualsiasi forma di arte, « si dice che il loro contenuto materiale deve essere trasposto su un piano più alto ... tutte le storie che ne vengono tratte possiedono un significato occulto ed esoterico. La nostra comprensione di quel contenuto è tanto lontana dalla sua verità e dal suo modo di essere in Dio, da non essere più una comprensione »; nell'opera d'arte c'è da capire qualcos'altro; «quando tenta di penetrarla, è veramente saggio chi troverà che il suo significato va molto oltre la sua capacità di comprensione, e che tanto ancora resta da scoprire ». L'arte è a un tempo denotazione, connotazione e allusione; affermazione, implicazione e contenuto; letterale, allegorica e anagogica.
Se dunque l'arte è per natura razionale, perché l'opera d'arte non è immediatamente comprensibile? Perché l'artista vede solo quel tanto dell'immagine esatta che i suoi poteri gli permettono; le immagini che l'uomo coglie non sono che una ristretta selezione di una somma inesauribile di possibilità. «Le parole traggono il loro potere dalla Parola originaria», e tali selezioni variano a seconda delle epoche, delle razze e, sebbene in minor grado, degli individui. Secondo una tesi ricorrente del pensiero scolastico, la conoscenza delle cose è relativa al modo soggettivo del conoscere; pertanto: «Non tutte le anime possiedono la stessa attitudine ... né la visione ... è parimenti gustata da tutti ». «L'arte tende, tra le cose temporali, a scegliere il meglio», ossia ciò che è considerato essenziale da ogni punto di vista, che può essere il tuo, il mio, o quello invalso nel primo o tredicesimo secolo, o in qualsiasi altro ambiente o cultura. Ecco perché nell' arte, anche quando si è trattato uno stesso soggetto o « imitato» identici aspetti della natura, troviamo un'infinita varietà di trattamento che ha determinato quelli che chiamiamo gli stili. Le differenze nel linguaggio parlato sono l'esempio più ovvio di questo fenomeno; ma si inganna di molto chi ritiene che ogni arte costituisca un linguaggio universale o che il linguaggio di ogni arte sia per natura onomatopeico. La varietà degli stili e ciò che è stato spesso definito il progresso o la decadenza nell'arte, ma che altro non è che 1'avvicendarsi storico degli stili, non hanno nulla in comune con 1'alterna e sempre assai limitata attitudine dell'uomo alla imitazione della natura. Gli stili sono idiomi di conoscenza e di comunicazione. Essi assolvono alla comunicazione nella misura in cui e fino a quando vengono accettati e compresi per convenzione (samketa); in un altro luogo o in un diverso periodo, diventa indispensabile impararne il linguaggio per decifrare 1'arte, il che richiede «diligenza e pazienza», «come uno che impari a scrivere » o al modo in cui «il nominare richiede l'uso del discernimento ».
Abbiamo così intuito che stile e idioma rappresentano una modalità particolare o parziale di visione. I caratteri di tale modalità (lakshana) dipendono dal rapporto tra l'artista come individuo e il suo tema; poiché questo rapporto è irripetibile e rispecchia i poteri e i limiti dell'individuo stesso, la struttura del modello presente nella sua mente può dirsi sua. Gli aspetti accidentali dell'essere che specificano la sua individualità possono infatti ritenersi propri dell'uomo che egli impersona: «I miei sguardi non sono la mia natura ma i suoi accidenti»; «gli accidenti variano ». In questo senso ogni artista imprime nell'opera qualcosa di sé: «Supponendo che Dio abbia chiesto a un angelo di prestarsi alla creazione dell'anima, deve aver impresso nell'anima qualcosa dell'angelo, perché non accade mai che l'artista direttamente dipinga o scolpisca una figura, o scriva direttamente le lettere dell'alfabeto, piuttosto copia i modelli presenti nella sua mente» non quelli esistenti nella mente universale, perché l'intelletto individuale «è assolutamente inadeguato ad ,essa ». Lo stile non si identifica necessariamente con la convenzione, sebbene ogni stile e ogni forma d'arte siano convenzionali o, secondo il linguaggio di Eckhart, «razionali »: lo stile è una classe particolare di convenzione, distinta da altre. Se dunque è vero che lo stile è l'uomo, ciò non significa che sia una virtù in sé, o per l'uomo un'occasione di vanto. Tocco e stile sono gli accidenti dell'arte. Secondo Chuang Tzu, i limiti delle cose sono appunto legati alla loro natura di cose. Ma è nella misura in cui 1'arte trascende lo stile che è stimata universale: Bach supera Beethoven. Dio però non ha stile, il suo « temperamento è l'essere ». L'uomo e Dio sono simili nell'intelletto, che Eckhart ritiene il vertice, il più alto potere dell' anima per il cui tramite questa prende coscienza di Dio, ma sono del tutto dissimili nella durata dell'intenzione (kratu) e nell'opera (karma), giacché l'uomo è condizionato dal tempo e dalla volontà. Mentre nella mente dell'uomo le idee vivono solo nella durata, anche se questa coincide con l'intera sua vitain Dio le creature hanno necessariamente vita eterna, seppure, per avere vita propria, debbano nascere in un dato momento. Le cause del divenire, rispetto alla causa prima, sono poi caratterizzate dal fatto che «il loro essere nelle cose decade non appena queste attingono, venendo al mondo, una vita propria, così come, non appena la casa è eretta, non ha più bisogno del suo costruttore, anche perché la sua fisicità non dipende soltanto da lui ma dai materiali impiegati che quegli trae dalla natura. Dio, invece, conferendo alla creatura tutta la sua esistenza, qualora la abbandonasse a se stessa, questa perderebbe vita all'istante » « come un quadro che, dipinto su una tela, poi si cancella »; non diversamente «Agostino osserva che, nel costruire la casa, l'architetto mette a frutto la sua arte, e anche se la casa crollasse, non così è dell'arte, che eternamente vive nella sua anima ». Riguardo al «sostegno che Dio offre alle creature per mantenerle in essere » Eckhart ricorre all' analogia della madre (i figli concepiti e procreati riflettono in se stessi entrambe le creazioni di Dio e dell'uomo); e analogamente, come Dio si prende materna cura del suo creato, l'uomo veglia, a sua volta, sulle cose che crea per preservarle nel tempo. L'intera opera creatrice, conservatrice e dissolvitrice dell'uomo è l'analogia temporale del simultaneo intervento creatore, conservatore e dissolutore di Dio (srshti, sthiti, laya). Eppure «colà non esiste alcun agire »; «se, nel suo lavoro, il costruttore fosse perfetto, non dovrebbe ricorrere all'uso di materiali; concepire la casa e costruirla sarebbero tutt'uno », così come avviene «per le opere di Dio che, non appena concepite, esistono »; o ancora: «Colui che costruisce una casa, la edifica dapprima nella mente, e quando la sua volontà l'abbia sufficientemente padroneggiata, a parte l'impiego dei materiali, la sola differenza tra il costruttore e la casa sarà quella che corre tra il concepente e ciò che è istantaneamente concepito ... (come) accade in Dio ... unica Persona, in cui il promanante (abhisrshti) e il promanato (abhisarga) non sono distinti ». Nell'uomo come in Dio, l'« arte» (intuizione-espressione) è e rimane interamente nell'artista; tuttavia, «non pensare che Dio si comporti come l'artigiano, il quale sceglie a suo arbitrio di fare o non fare. Non cos1 Dio; se tu sei pronto, egli non può agire insufflando su di te, come necessariamente il sole scotta quando l'aria è tersa ». La « disponibilità» è altrimenti espressa nella tensione «insaziabile alla forma» propria della materia; parimenti, Dio «deve agire, volente o nolente », cos1 vuole la sua natura, senza un perché. Questa necessità diventa nell'uomo la cosiddetta gratuità dell'arte: «L'uomo dovrebbe produrre senza motivo, né per Dio né per la sua gloria, né per alcun altro scopo a sé estraneo, ma in nome di ciò che è il suo vero essere spirituale, la sua autentica vita interiore »; «Non dare alla tua opera alcun altro scopo» « Opera come se nessuno fosse mai esistito o venuto sulla terra » «Sia ogni felicità a quanti hanno udito questo sermone. E qualora non vi fosse stato alcuno, avrei parlato alla cassetta per i poveri» . «Dio e la sua volontà sono tutt'l!-no, sicché se sono un uomo e intendo agire in modo del tutto libero da volontà ... devo comportarmi in modo che le mie azioni siano estranee alla mia volontà ... nel compierle, devo rimettermi alla volontà di Dio » «Prima di tutto, non avere attaccamento a nulla. Abbandònati, e lascia che Dio agisca per te ». C'è nell'artista un vago « riflesso» del modo di operare di Dio, « spontaneamente ma non con volontà, naturalmente ma non per natura » e ciò accade quando, raggiunta la piena padronanza della sua opera, divenuta una sorta di seconda natura (habitus) (shlishtatva), egli non esita ma « procede con sicurezza, senza chiedersi, faccio bene o faccio male? Se il pittore dovesse programmare in anticipo ogni pennellata, non dipingerebbe più »; « l'opera del Cielo è più grande di quella dell'uomo che costruisce una casa ». Espressioni come «ispirato dall' arte » «il più vicino possibile al suo ideale » «creare per creare », suonano a orecchi moderni come riscontri di una teoria dell'arte per l'arte. Ma ci sbagliamo. «Arte» e «ideale », nel senso qui inteso, lungi dall'avere la connotazione sentimentale odierna, stanno a indicare la piena comprensione del tema da parte dell'artista, e dunque la necessità dell'opera (krtartha); lavorare per «il vero intento della causa prima dell'opera» non è lavorare per il gusto di produrre, come implica la concezione moderna dell'arte; «lavorare per lavorare» significa fare in libertà, senza scopo, agilmente. Lavorare conforme alla «idea dilettissima della propria arte », ossia impegnandosi al massimo, è semplicemente onesto, e «per onesto, intendo fare del proprio meglio in questo istante », avendo «buone ragioni di ritenere che nessun altro lavorerebbe altrettanto bene », e adoperandosi per « la perfezione nelle opere temporali»; i « diligenti» sono infatti « coloro che non si lasciano intralciare da nulla nell'opera ».
L'utilità dell'opera e la sua causa prima coincidono, «lo scopo ultimo (prayojana) dell'opera coincide sempre con il vero intento (artha) della sua causa prima»; «quando l'architetto costruisce una casa, il suo primo proposito è il tetto (per l'implicita idea di rifugio), che è poi (effettivamente) il culmine della casa». In quanto essere razionale, nessun uomo lavora senza scopo: «Per il costruttore che taglia legno e pietra perché vuole edificare una casa che lo protegga dall'afa estiva e dal gelo invernale, il primo e ultimo pensiero è la casa, e se non mirasse alla casa egli non taglierebbe una sola pietra né muoverebbe un dito». L'utilità dell'opera consiste nel suo vantaggio fisico immediato, non nel suo scopo edificante. I requisiti di chi compie un'opera concreta sono: conoscenza del mondo, diligenza e acume, da non confondersi con l'intuizione, una effettiva competenza che tenga conto del mezzo: per esempio, «il celebrante (della messa) troppo raccolto in se stesso facilmente sbaglia. La via migliore è di concentrare la mente prima e dopo, ma sul momento deve celebrare speditamente e scioltamente ». Un'opera può essere intrapresa ad majorem gloriam Dei o per qualsiasi scopo più prossimo, ma il fine si può godere solo in vista o nel completamento dell'opera. Quando lavora, l'uomo non è che uno strumento, e come tale deve usare se stesso, preoccupandosi del fare e non del suo esito, totalmente assorto nell'opera come «il filosofo pagano che studiava matematica ... per seguire la sua arte ... troppo assorto per vedere o udire il suo nemico ». Lavorare dunque non per amore di abilità o per esibirla, ma per servire e glorificare la causa prima dell'opera, cioè il soggetto immaginato nella mente dell'artista «senza idea di possesso ». Ciò che può essere l'opera, non conta, ma è essenziale che l'artista vi si doni totalmente: «gli è tutto eguale ciò che ama »; lavora, comunque, per amore di Dio, perché la perfezione dell'opera sta «nel preparare tutte le creature a tornare a Dio», là dove «si trovano naturalmente esemplate nell''essenza divina ». Tale atteggiamento non può che dare buon frutto, anche se il soggetto del quadro sia il ritratto del pittore, l'immagine di Dio in lui. Non è un artista onesto ma un borioso esibizionista colui che vuole stupire con la sua abilità: «Qualsiasi uomo retto si vergognerebbe se la gente dabbene ravvedesse in lui un tale intento»; data l'arte di cui dispone, e che è normale che pratichi, sia l'abilità sia l'acume sono sottintesi. Se, grazie alla sua perizia, gli accade di ottenere fama nel mondo, lo consideri un «dono di Dio », non come un frutto dovutogli, e lavori «come se nessuno esistesse». Lo stesso è per il salario: è indubbio che chi lavora deve essere compensato, ma se la sua «sollecitudine» va a tutto tranne che al bene dell'opera cui attende, costui non è più un lavoratore ma uno «schiavo e un mercenario». Dedicarsi nel mondo «a qualche utile occupazione» non è ad alcun effetto un ostacolo al perfezionamento dell'uomo e, sebbene «pregare sia atto migliore che filare», l'uomo deve saper rinunziare all'«estasi» per impegnarsi in qualsiasi attività che possa essergli richiesta come una forma di servizio; e anche ciò «che è imprescindibile per entrare in contatto con Dio è lavoro, vocazione, chiamata nel tempo, che non interferisce di un briciolo con l'eterna salvezza ». «Per essere nel giusto, deve accadere una di queste due cose: o l'uomo trova e impara a possedere Dio nelle sue opere, oppure cose e opere vanno abbandonate del tutto. Ma poiché nessuno in questa vita può non agire, l'uomo deve dunque imparare a trovare il suo Dio in tutte le cose». Anche per il religioso «la vita attiva colma i vuoti della vita contemplativa», e « sono in grande difetto e sulla pista errata coloro che conducono vita contemplativa senza mai compiere azioni all'esterno »; «nessuno in questa vita può raggiungere lo stadio in cui sia dispensato dall'agire »; pertanto «opera in tutto» e «compi il tuo destino». Ciò tanto più vale per chi « non sa nulla della verità dall'interno; se la cerca all'esterno, la troverà anche dentro». In ogni caso, «lo scopo di Dio nell'unione (yoga) della contemplazione è la fecondità delle opere».
L'artista gode naturalmente della sua opera, via via che l'immagine prende forma nella sua mente al modo in cui in Dio la visione di tutte le creature non è che l'immagine di sé in se stesso; questo piacere alla vista della materia colta nell' atto del suo prender forma è, per l'uomo impegnato nel lavoro, un'esperienza estetica. Ma la natura vera di tale esperienza può essere meglio valutata dal punto di vista dello spettatore, il quale vede l'opera non nel suo divenire ma nel suo risultato finale, come sottratta al tempo; giacché «nessuna azione è tanto perfetta da non intralciare la concentrazione. L'ascolto della messa consente il raccoglimento più di quanto lo procuri il celebrarla». Cosa è dunque l'esperienza estetica o quell'evento definito da Eckhart concentrazione, contemplazione, illuminazione (avabhiisa), punto culminante della visione, estasi, quiete? Nella misura in cui è accessibile all'uomo come una voce, una pregustazione, o un subitaneo bagliore, essa è la visione del quadro cosmico come è visto da Dio, nell'atto del suo amare tutte le creature di identico amore, non considerandole rispetto alloro uso ma come l'immagine di sé in sé, ognuna partecipe in completezza della natura divina; lo sguardo di Dio è come di chi, scrutando in uno specchio, vede interamente tutte le cose indipendentemente dal tempo e dallo spazio, ognuna come se fosse l'unica, senza vagare dall'una all' altra, e senza bisogno di luce, ma contemplandole in quell'eterno fulgore creatore di immagini dove «a tutte le cose sensibili sovrasta il velo immoto dell'unità ». Viste così, esse appaiono perfette, fresche, eternamente giovani: «Avere tutto ciò che,esistendo, è oggetto d'intenso desiderio e procura gioia; averlo subito, in toto, nell'anima indivisa in uno con Dio, cogliendolo nella sua perfezione, nel primo sbocciare alla radice della sua esistenza ... questo è felicità», «uno stupore singolare », «vissuto non nella mente né nella volontà, ... non un pensiero, ma un'estasi , non dialetticamente ma come se si avesse tanto potere e conoscenza da fissare tutte le fasi del tempo in un eterno adesso come è proprio della gioia di Dio.
Un altro modo di intendere l'esperienza estetica consiste nel paragonarla a uno spettacolo o a un gioco (lila) che si rappresenta in eterno di fronte a tutte le creature, dove attore e pubblico, gioco e giocatori si identificano, nella misura in cui la loro natura si esprime in trasparenza e allegrezza; oppure a un'azione concertata in Dio dove l'atto compiuto coincide con tutto l'esistere. Questa partecipazione alla visione che Dio ha di sé nella sua «opera» e che, nella misura in cui possiamo averne un « sentore », è quanto riteniamo un'esperienza estetica, è anche ciò che intendiamo per Bellezza rispetto alla mera gradevolezza e al gradimento, che sono condizionati dai loro opposti. Secondo Dionigi, la Bellezza è ordine e simmetria suprema. In questo senso, «la Divinità è la bellezza delle tre Persone», «bellezza con cui neppure il sole è paragonabile»; « ogni Persona irradia sulle altre come su se stessa. Questa illuminazione è la perfezione della bellezza». «Tutte le cose tendono verso la loro finale perfezione». Tanto si può dire della pura esperienza estetica raggiungibile da chiunque ne faccia il pegno dell'ultima perfezione e della perfetta felicità. È nella doppia veste di artista e discente che l'uomo prepara tutte le cose a ritornare a Dio, nella misura in cui apprende a vederle simbolicamente (parokshat) e non soltanto nella loro apparenza sensibile (pratyakshena). Tale è, dal punto di vista di Eckhart, il « significato» dell'arte. «Cioè nella misura in cui arrivo a comprenderla ».